Uno dei principali ostacoli alla comprensione dell’attuale questione ebraica (possiamo cominciare a chiamarla così, purtroppo) è che l’analisi dei fenomeni che la riguardano si è strutturata per decenni su modelli appartenenti al passato. A differenza dell’antisemitismo tradizionale del XX secolo, che considerava gli ebrei come un corpo estraneo alla cultura e alla società occidentale, l’antisemitismo contemporaneo capovolge questa prospettiva, identificandoli in toto con un Occidente di cui generalmente rifiuta i valori, gli ideali e le politiche. Questa forma di razzismo non è più caratteristica dell’estrema destra, ma si manifesta principalmente in ambienti di sinistra, sedicenti progressisti, imbevuti di relativismo woke e ideologicamente contigui ai movimenti islamisti.
Era stata Fiamma Nirenstein a intuire per prima più di vent’anni fa la deriva del nuovo antisemitismo e ad anticiparne le conseguenze drammatiche, non solo per Israele e gli ebrei ma per le democrazie liberali nel loro complesso: tra il 2002 e il 2004 uscirono L’Abbandono, come l’Occidente ha tradito gli ebrei e Gli Antisemiti Progressisti, atti d’accusa implacabili contro una civiltà che sembrava non comprendere l’entità della minaccia fondamentalista e la necessità di difendere lo Stato di Israele come avamposto di democrazia e libertà in Medio Oriente.
Questo ventennio alienato e autolesionista, di cui oggi raccogliamo i frutti avvelenati, ebbe inizio ufficialmente in quel di Durban tre giorni prima degli attentati dell’11 settembre 2001. Quel che andò in scena nella città sudafricana in occasione della Conferenza mondiale contro il razzismo (organizzata dall’Onu) fu poco raccontato, complice il massacro delle Torri che monopolizzò l’attenzione mediatica, eppure fu un passaggio fondamentale per comprendere la progressiva erosione dei principi liberaldemocratici nelle nostre società. Anche se la dichiarazione finale venne attenuata dopo il ritiro delle delegazioni americana e israeliana, l’intero processo preparatorio di quella che avrebbe dovuto essere un’occasione per il riconoscimento dei diritti di tutte le minoranze oppresse si trasformò in un processo sommario a Israele per il trattamento “inferto ai palestinesi”, durante il quale si equipararono esplicitamente sionismo e razzismo, si parlò di “pulizia etnica della popolazione araba” e di “nuovo apartheid”. La maggioranza “anti-imperialista”, succube della propaganda araba e terzomondista, riuscì a far passare un’agenda in cui l’unica democrazia compiuta del Medio Oriente e la più grande democrazia del mondo, gli Stati Uniti – ritenuti i soli responsabili storici dello schiavismo – erano messi sul banco degli imputati con una condanna già scritta: ironia della storia, la Conferenza contro il Razzismo si trasformò in un teatro di antisemitismo e antiamericanismo, dove i regimi illiberali sentenziavano le società aperte per le loro “colpe storiche”.
Un’orgia di vittimismo che, pochi giorni dopo, trovò la sua realizzazione più spettacolare negli attacchi terroristici di New York e Washington, in cui si colpiva il cuore politico, economico e ideale di quell’Occidente che finalmente pagava per i suoi soprusi. L’indignazione tardò poco a lasciare il passo al solito rovesciamento della realtà: le vittime se l’erano cercata. Oggi le stesse piazze “anti-imperialiste”, avvolte negli emblemi del pacifismo come copertura morale, galvanizzate dal pogrom anti-ebraico del 7 ottobre, ripetono gli slogan genocidi di Hamas come se fossero normali consegne protestatarie; le stesse istituzioni internazionali condannano la risposta israeliana come un crimine di guerra e assolvono i nuovi aguzzini degli ebrei, equiparando le loro azioni terroriste alla legittima difesa di una democrazia liberale attaccata; gli stessi governi europei che si guardarono bene dal dissociarsi dalla farsa di Durban promuovono adesso il riconoscimento dello Stato palestinese, mentre decine di ostaggi israeliani sono ancora in mano ai loro sequestratori. L’abbandono è diventato vessazione. Mercoledì scorso, la vicepresidente dell’Esecutivo spagnolo, la comunista Yolanda Díaz, ha diffuso un videomessaggio che si chiudeva con la frase “la Palestina sarà libera dal fiume al mare”: è la prima volta dall’Olocausto che un alto rappresentante di un governo occidentale fa un appello esplicito alla cancellazione dello Stato di Israele.
L’antisemitismo contemporaneo è l’espressione più becera e virulenta dell’antioccidentalismo. Israele e gli ebrei sono detestati perché rappresentano una propaggine dell’Occidente liberale in un territorio dominato dal rifiuto della modernità e della società aperta. Non più soltanto pregiudizio etnico-religioso, questo neo-razzismo ammantato di falso umanitarismo fu venduto con successo al mondo già mezzo secolo fa dalla propaganda sovietica come “antisionismo”, in un’applicazione da manuale del double speak orwelliano. Pur richiamandosi a concetti teoricamente di alto valore morale, come la lotta al colonialismo, all’imperialismo o alla discriminazione, nella pratica si è rivelato il solito kit ideologico buono per tutte le stagioni, da contrapporre frontalmente alle detestate “libertà capitalistico-borghesi”, ovvero a conquiste di civiltà come la democrazia, il pluralismo e i diritti umani, che solo da noi hanno trovato applicazione universale. Lo scandalo è Israele perché lo scandalo è l’Occidente, catalizzatore dell’invidia del proletariato esterno e interno (si vedano sull’argomento i lavori di Luciano Pellicani e Victor Alba), in quanto società che ha costruito il suo successo, finora ineguagliato, sul rispetto delle prerogative essenziali dell’individuo. Una realtà intollerabile per i totalitari di ogni latitudine. Prendendo a prestito la definizione di Hannah Arendt, l’antisemitismo si ripresenta oggi come “l’ideologia di tutti gli scontenti rosi dalla frustrazione e dal risentimento”.
È qui che si salda l’alleanza tra sinistra e islamismo radicale, sancita dai boicottaggi, dalla violenza verbale, dalle occupazioni delle piazze e dei campus universitari, dal ricatto e dall’intimidazione. Un’alleanza quasi naturale, anche se mai prima d’ora esplicitata in forma così palese, che deriva dal comune disprezzo per i principi e i valori della civiltà liberale e democratica, in un caso filtrato dalla dottrina marxista-leninista e i suoi derivati, nell’altro dalla predicazione dei mullah. Questo duplice focus – sugli ebrei come incarnazione dell’Occidente e sull’Occidente come protettore degli ebrei in Medio Oriente – rafforza sia i sentimenti antiebraici che quelli antioccidentali, intrecciandoli in modo da amplificare l’ostilità verso entrambi i poli. Le teorie del complotto, la retorica anti-capitalista, il rifiuto del liberalismo politico ed economico, la negazione del diritto di Israele ad esistere, si alimentano a vicenda in un vortice che può sfociare solo nella demonizzazione o nella guerra aperta.
In un simile contesto politico e ideologico, si intuisce facilmente che i vecchi schemi sulla “questione palestinese” come conflitto eminentemente territoriale sono oggi del tutto inadeguati a interpretare uno scontro a tutto campo, all’interno del quale Israele è solo il primo nemico da abbattere. L’integralismo islamico ha come missione ripulire il Dar al-Harb (il mondo non ancora musulmano) dagli infedeli, che sono gli ebrei ma anche i cristiani, categorie entrambe da convertire o da eliminare. È questa identificazione tra Israele e Occidente che rende la presenza ebraica inaccettabile per i fondamentalisti, così come in passato per il Gran Muftì di Gerusalemme, già alleato di Adolf Hitler. L’opposizione non è più – ammesso che lo sia mai stata – tra Israele e Palestina, ma tra dittature islamiste (Hamas a Gaza, l’Iran con i suoi proxies) e democrazie liberali. Non una contesa territoriale ma una minaccia esistenziale: il jihad, la guerra santa, la nazione dell’Islam da Teheran a Rafah, passando per il Mar Rosso e i territori libanesi da dove partono i razzi di Hezbollah diretti oltreconfine. Una visione totalitaria ed escatologica in cui non c’è spazio per l’accomodamento, e la tregua o la trattativa sono solo espedienti temporanei per recuperare le forze e rilanciare l’attacco.
Oltre all’oscena equiparazione tra i capi di un proto-Stato terrorista e i rappresentanti di un Governo democratico, la recente richiesta di arresto per crimini di guerra formulata dal procuratore della Corte penale internazionale (Icc) Karim Khan a carico del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro della Difesa, Yoav Gallant ha riportato in auge la narrazione secondo la quale le azioni dello Stato ebraico a Gaza sarebbero assimilabili a quelle della Russia in territorio ucraino. Si tratta, anche in questo caso, di una pericolosa e malintenzionata fallacia, sia dal punto di vista morale che da quello strettamente concettuale. Innanzitutto perché, a differenza dell’ingiustificata aggressione russa, Israele è stato trascinato dal massacro del 7 ottobre in una guerra di sopravvivenza che non aveva nessuna intenzione di combattere; in secondo luogo perché, mentre i russi colpiscono deliberatamente le infrastrutture civili ucraine, gli israeliani hanno sempre cercato di minimizzare il più possibile le conseguenze per la popolazione palestinese, in un contesto urbano in cui i non combattenti sono usati come carne da cannone da Hamas, per alimentare la propaganda del genocidio; infine, e qui troviamo il cortocircuito logico decisivo, perché Ucraina e Israele stanno combattendo la stessa guerra difensiva, per analoghe ragioni esistenziali, e che la lotta di entrambi rappresenta un argine al dilagare in Europa dei nuovi totalitarismi, secolari o religiosi. Sconcerta, allora, osservare come anche molti paladini della causa ucraina riversino su Israele le stesse accuse e le stesse mistificazioni promosse dall’ideologia antioccidentale nei confronti sia di Kyiv che di Gerusalemme.
“Si chiama antisemitismo, il suo fascino muove istituzioni grandi e potenti come l’Onu e l’Unione Europea, cambia il discorso pubblico, ipnotizza le università, lo sport, l’arte, la giustizia (...)”, ha scritto di recente Fiamma Nirenstein. Se nelle società democratiche, invece della consapevolezza delle minacce incombenti e della necessità di farvi fronte, continueranno a prevalere l’inversione permanente delle responsabilità, l’autolesionismo, il relativismo morale e l’erosione sistematica del principio di realtà, nessuno potrà più dirsi al sicuro.
Aggiornato il 24 maggio 2024 alle ore 09:59