Giorgia Meloni conquista la Francia

Questo titolo esprime ovviamente un’iperbole dal punto di vista geografico ed economico, ma è realistico da quello politico e culturale, perché l’insieme teorico-pratico dispiegato da Giorgia Meloni coincide, in modo e misura notevoli, con le idee di molti e autorevoli pensatori del centrodestra francese, i quali da qualche tempo hanno iniziato a vedere nel nostro Presidente del Consiglio un punto di riferimento sempre più forte.

Questa compagine di intellettuali – eterogenea ma unita intorno ad alcune opzioni di fondo come la difesa della tradizione e dell’identità europea, l’alleanza atlantica, il contrasto all’imperialismo russo e all’infiltrazione islamica, la salvaguardia delle nazioni e l’Europa delle patrie – annovera nomi eccellenti: Alain Finkielkraut, Marcel Gauchet, Pierre Manent, Jean-Louis Harouel, Pascal Bruckner, Pierre-André Taguieff, Luc Ferry, Gilles-William Goldnadel, Richard Millet, Nicolas Baverez, oltre a molti che non riesco qui a menzionare; e ha sullo sfondo, nel passato, i grandi profili di Raymond Aron, Jean-François Revel, Alain Besançon e André Glucksmann. Si tratta della più cospicua area di pensiero liberalconservatore nell’intero contesto occidentale, intorno alla quale – non posso purtroppo evitare un’autocitazione – ho strutturato le tesi centrali del mio libro I padroni del caos (2017).

Che questo ragguardevole gruppo di intellettuali, liberalconservatori nei princìpi e di centrodestra nella collocazione, esprimesse posizioni molto simili a quelle concepite dal ristretto nucleo dirigente di Fratelli d’Italia, è riscontrabile già dal documento predisposto per il congresso del 2017 (noto come Tesi di Trieste, elaborate in primo luogo, oltre che da Giorgia Meloni, da Giovanbattista Fazzolari, Marco Marsilio, Nicola Procaccini, per citare i nomi principali), ed è verificabile leggendo i testi pubblicati dai liberalconservatori d’Oltralpe negli ultimi decenni. Ma che questa contiguità di idee trovasse un riconoscimento esplicito in articoli o dichiarazioni pubbliche da parte francese, non era scontato, anzi, è un fatto inconsueto e proprio perciò degno di attenzione.

Ed è quindi di grande interesse, sia per la caratura culturale sia per le implicazioni politiche, il fatto che qualcuno di loro arrivasse a costruire non solo un tessuto culturale di affinità a «Giorgia», ma anche un progetto politico che la prendesse a esempio. Già alcuni mesi fa, gennaio per la precisione, Luc Ferry aveva sostenuto che parlare di fascismo riguardo a Giorgia Meloni fosse «semplicemente ridicolo» e che, invece, bisognava considerare la situazione italiana come un modello: «guardate Meloni, non è il fascismo che è ritornato in Italia», è un conservatorismo popolare che si è affermato come destra di governo. Ora Nicolas Baverez, su Le Figaro del 12 maggio, ha pubblicato un articolo emblematico per chiarezza e per comprensione della prospettiva di Giorgia Meloni.

Baverez è un tipico liberalconservatore francese, economista e sociologo molto accreditato, il cui libro La France qui tombe (2003) ha dato l’avvio al dibattito sul «declino» francese, contribuendo in modo significativo a quel movimento di «ricostruzione» della coscienza pubblica della nazione che si articola intorno agli intellettuali sopracitati. Vent’anni fa egli aveva individuato la causa primaria del declino nella combinazione fra paralisi istituzionale e retorica ideologica, «nell’espressione ultima del nihilismo francese, che s’inebria di violenza verbale e non avanza alcuna soluzione concreta», e oggi ritiene che quella causa negativa non sia stata eliminata perché la politica non è stata capace di frenare «la balcanizzazione della società» e concepire uno schema fattibile da opporre al politicamente corretto. Baverez non trova una completa risposta al problema francese nella, pur apprezzabile per molti aspetti, linea di Marine Le Pen, perché da alcuni anni (almeno dal 2014, invasione della Crimea) è deflagrato in Europa il problema Russia, che ha spinto a scegliere fra atlantismo e russofilia, fra Occidente ed Eurasia. E la premier italiana rappresenta per Baverez la risposta al declino, che non è solo francese bensì europeo.

Del suo articolo su Le Figaro vale pertanto la pena riportare alcuni passaggi: «La presidente del Consiglio si è impegnata nella difesa dei valori tradizionali, come la famiglia, la religione e il patriottismo. Ha mostrato fermezza sull’immigrazione, senza trascurare le esigenze delle imprese italiane di fronte al crollo della popolazione attiva. Ha avviato un progetto di revisione costituzionale per rafforzare i poteri del capo del Governo attraverso la sua elezione diretta, senza entrare in conflitto con Sergio Mattarella, molto rispettato presidente della Repubblica. Ha adottato la strategia economica di Mario Draghi [...]. Ha stretto alleanze e mostrato vicinanza con Ursula von der Leyen. Ha dimostrato una determinazione incrollabile per rafforzare la Nato, contenere l’imperialismo russo, aiutare l’Ucraina, sostenere Israele contro Hamas [...]. La linea politica seguita da Giorgia Meloni non è neofascista. Non intende superare la divisione tra destra e sinistra, né operare una sintesi tra socialismo e nazionalismo, ma rivendica una posizione risolutamente conservatrice. Non denuncia le élites, non condanna l’impotenza della democrazia rappresentativa, non disprezza lo stato di diritto, e propone di assumere il controllo delle istituzioni in Italia e nell’Unione [...]. Intende conciliare il conservatorismo nei valori e il liberalismo nell’economia, incoraggiando la libera impresa, la solidarietà occidentale, il progetto di un’Europa delle patrie che privilegi la difesa delle sue frontiere esterne». Difficile dire meglio. Una sola osservazione terminologica: volendo definire il governo Meloni per contrasto con i governi gialloverdi precedenti, Baverez usa il concetto di «post-populismo». Ora, è vero che il governo Meloni segue quello populista di 5 Stelle e Lega, e in senso cronologico è «post» perché viene dopo, ma in senso ideologico esso è del tutto anti-populista, «popolare», secondo la definizione di Ferry (e secondo quella, ben più antica, di don Luigi Sturzo). Tanto «popolare», nel senso di conservatrice-liberale, è infatti l’ottica meloniana, che le imminenti elezioni europee la vedono fra i protagonisti.

Queste elezioni hanno una doppia dimensione, nazionale e appunto continentale, e quindi, pur esprimendo i rappresentanti di ciascuna nazione, ne valicano i confini. Di conseguenza, anche lo sguardo con cui interpretarle dev’essere duplice: locale e globale, attento sia alle singole identità sia alle esigenze dell’Unione, che va profondamente riformata, e di ciò sono consapevoli tanto i Conservatori quanto alcuni leaders del Ppe, ma che nel contempo va tenuta saldamente unita, perché con la sua deflagrazione soccomberebbero oggi anche le nazioni e perfino i popoli europei. Operazione difficile? Sì, ma è l’unica storicamente necessaria.

Il baricentro strategico, oggi come ieri (dal punto di vista dell’essenza geopolitica poco è cambiato infatti dall’epoca della Guerra fredda), è costituito da quello che viene detto atlantismo e che si struttura intorno a due perni politici: la contiguità stretta Ue-Usa e la differenza radicale rispetto alla Russia putiniana, neosovietica ed euroasiatica (come dimostra l’alleanza con Cina e Iran); e si innesta su un asse militare: la Nato come espressione operativa di una volontà politica che riesce ad amalgamare nazioni e orientamenti diversi, pur conservandone le differenze. Se questo è il nucleo dell’identità europea (e, più in generale, occidentale), le elezioni di giugno devono essere, nella loro contingenza storica e nella loro essenza politica, una sorta di plebiscito identitario che riguardi in particolare questa esigenza sommamente strategica del tempo presente. E se è così, tutti gli osservatori obiettivi e onesti – a prescindere dalla loro collocazione partitica – non possono non riconoscere che il capo del Governo italiano interpreta nel modo più preciso e autorevole questa duplice esigenza.

In Francia, dove gli intellettuali hanno antenne sopraffine per captare le idee (anche quelle negative, purtroppo), si sono resi conto del valore di quelle del premier italiano. I liberalconservatori francesi hanno colto il senso autentico della visione complessiva di Giorgia Meloni, e l’hanno adottata come modello per la loro realtà nazionale e per la loro idea di Europa. «Giorgia» sarebbe, per restare nell’iperbole di partenza, il leader politico che manca al centrodestra francese, con tutto il rispetto per Marine Le Pen, alla quale fanno difetto due elementi fondamentali per la destra liberalconservatrice europea: la vicinanza agli Usa con il correlato sostegno alla Nato, e l’opposizione netta alla Russia e ai suoi inquietanti alleati.

Aggiornato il 21 maggio 2024 alle ore 10:01