Se tutto è fascismo

La corruzione del linguaggio come collante ideologico del revisionismo anti-liberale

Sull’intima relazione tra pratica totalitaria e linguaggio esiste un’ampia letteratura a cui accennerò qui solo come premessa argomentativa. Ne La lingua del Terzo Reich (1947), Victor Klemperer analizzava nel dettaglio le trasformazioni semantiche di termini già in uso e l’introduzione di nuovi lemmi e stilemi che accompagnarono l’ascesa del nazismo in Germania. Quarant’anni dopo, in Francia, si pubblicava il fondamentale saggio di Françoise Thom sulla formazione, la funzione e le conseguenze della lingua di legno nel regime sovietico e, per estensione, nel movimento comunista internazionale (La langue de bois, 1987). In quest’opera l’autrice elaborava una sintesi degli studi nel frattempo apparsi su un fenomeno che George Orwell enucleò sotto forma romanzata già nel suo 1984, e non certo come semplice premonizione: nel classico della cosiddetta letteratura distopica, lo scrittore britannico descriveva di fatto una realtà storica già in essere, in cui la neo-lingua si imponeva nei sistemi di riferimento secondo schemi e precetti prestabiliti.

Il discorso totalitario (la combinazione di doublethink e newspeak), come parte integrante dell’ideologia, era lo strumento in grado di depurare il reale secondo i dettami politico-estetici del potere assoluto, essenziale alla formazione dell’uomo nuovo e del pensiero collettivista. Un linguaggio in cui, come avrebbe scritto nel 1992 il sociologo americano Edward S. Herman, quel che più importava era la capacità di mentire, coscientemente o no, e di farla franca; la capacità di usare le menzogne per selezionare e manipolare i fatti in modo da farli corrispondere a un’agenda o a un programma. La menzogna, in politica, si declina come manipolazione delle masse e in tempo di guerra diventa un’arma dal potenziale distruttivo, soprattutto se usata contro un nemico che non ne percepisce fino in fondo la minaccia. Come intuì Hannah Arendt, “la propaganda è in verità parte integrante della guerra psicologica”, e in quanto tale strettamente associata al terrore (Le origini del totalitarismo, 1951).

Se oggi non abbiamo a che fare con le immense prigioni di genti del XX secolo, con quelle società dei morenti edificate nei lager nazisti e comunisti, siamo però chiamati a confrontarci con pratiche totalitarie di ritorno e con un rumore totalitario diffuso. Così, nel più tipico dei capovolgimenti semantici (“La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza”), settantacinque anni dopo le consegne del Socing, nel doublethink del putinismo e dell’antisemitismo di sinistra, l’Ucraina aggredita militarmente dai russi diventa un avamposto del neo-nazismo da sradicare e gli ebrei, vittime il 7 ottobre del più atroce pogrom dall’Olocausto, gli artefici di un genocidio nei confronti dei palestinesi. La de-nazificazione, parola d’ordine allucinata e allucinante che ha accompagnato come un grido di battaglia l’invasione del febbraio 2022, viene oggi riproposta contro Israele nelle piazze fanatizzate che ripetono gli slogan – questi sì esplicitamente genocidari – dei terroristi di Hamas e della teocrazia iraniana. La nazificazione degli ucraini e degli ebrei – quest’ultima caratteristica immanente dell’antisemitismo contemporaneo, ereditata della propaganda sovietica e tramandata dal progressismo anti-occidentale fino ai giorni nostri – è oggi il paradigma di linguaggio abusivo usato come arma contro il nemico ideologico. Di più. La distorsione dei concetti fino alla loro completa trasfigurazione è diventata la cifra identitaria dell’attacco alle democrazie liberali sferrato dagli epigoni del totalitarismo, sia quelli operanti dall’esterno, sia quelli comodamente installati al loro interno.

Non è un caso che il ritorno sulla scena di un fantomatico fascismo eterno coincida con l’esplosione di un movimento collettivo di auto-flagellazione quale il wokismo e i suoi derivati, nuova frontiera – inevitabilmente – di una neo-lingua votata alla riscrittura di storia e cultura occidentali a partire dalla trasformazione lessicale (servono termini inediti per le moderne identità di genere, siano esse sessuali, etniche, politiche). Travestite da questione ambientale, palestinese, sociale, pacifista, e chi più ne ha più ne metta, tutte le “battaglie” di una parte della società occidentale contro se stessa non sembrano altro che il rancoroso tentativo di prendersi la rivincita per la disfatta ideologica dell’89. È la trappola dell’antifascismo eterno il più delle volte eterodiretto e invariabilmente illiberale – che giustifica qualunque deriva, per surreale o grottesca che sia (come definire altrimenti, solo un esempio tra i tanti, il supporto di ampi settori del movimento femminista e Lgtbiqa all’islamocrazia omofoba e maschilista di Hamas?).

Un antifascismo che non si propone come obiettivo combattere il fascismo (che è solito peraltro vedere dove non esiste e non riconoscere dove esiste) ma piuttosto segnalare tutto ciò che a suo insindacabile giudizio identifica come tale, vale a dire praticamente qualunque cosa non si muova al ritmo imposto dal progressismo militante. A partire da queste premesse è breve il passo che porta alla fascistizzazione dei punti di vista che non rispondono ai dettami del totalitarismo angelico, per dirla con Richard Millet, ovvero l’odio di se stessi in nome di un terzomondismo di maniera (in cui l’altro da noi è per definizione vittima, incapace di fare il male se non per reazione) che si rinnova di generazione in generazione, alimentato dalla retorica benevolente di una sinistra elitaria disposta a far saltare il banco pur di mantenere la propria egemonia sulla società politica. Una società che, se non si può conquistare per assalto, dev’essere presa per sfinimento. Oltre ad essere la più potente arma di distrazione di massa del dibattito contemporaneo, la retorica del fascismo eterno alimenta oggi una vera e propria industria: sull’estrema destra si scrivono montagne di libri, si organizzano conferenze e corsi a pagamento, si compilano liste di proscrizione, si nutrono le frange estremiste delle università che servono a mantenere in costante tensione la società civile e a provocare una risposta repressiva (cioè fascista, facile no?).

Ma, allo stesso tempo, è in nome di questa peculiare concezione dell’antifascismo che si riempiono le piazze europee per chiedere la cancellazione dello Stato di Israele e il riconoscimento della nazione palestinese dal fiume al mare, mentre da Mosca, con il pretesto della lotta contro il “nazismo del regime di Kiev, partono gli ordini di bombardamento delle città ucraine e di deportazione delle popolazioni dei territori occupati. A trentacinque anni dalla caduta del Muro di Berlino, la corruzione del linguaggio si ripresenta come collante ideologico del revisionismo anti-liberale. Il 15 febbraio del 1948, The Observer pubblicò un articolo di George Orwell su Karl Marx e la Russia, il cui incipit recitava: “La parola comunismo non si è mai trasformata in un termine senza senso, come è successo con la parola fascismo per l’abuso che se ne fa.

La grandezza e la condanna dei classici è che non passano mai di moda.

Aggiornato il 16 maggio 2024 alle ore 09:29