Nella confusione linguistica e concettuale che spesso affligge molti dei programmi di approfondimento politico di parecchie reti televisive, un’affermazione assai frequente da parte delle opposizioni sta nel chiedere ossessivamente agli esponenti di Governo di dichiararsi pubblicamente antifascisti. A tal segno, tale richiesta viene ripetuta da essere ormai divenuta una sorta di rituale comunicativo dal quale non pare possibile prescindere, e dal quale debba necessariamente dipendere ogni forma di comunicazione politica allo scopo di essere legittimata. Sembra perciò il caso di avanzare brevi osservazioni in proposito.
“Antifascismo” è un termine assai impegnativo dal punto di vista umano e politico, dal momento che sta a designare – originariamente – la ferma e spesso eroica opposizione che una parte della popolazione italiana operò nei confronti del regime fascista e di quello nazista. Questo movimento – espressione di profonde convinzioni – può a ragione definirsi antifascista nel suo complesso, anche se vide fra i protagonisti forze politiche e sociali di diversa estrazione: comunisti, democristiani, liberali, socialisti. Tali diverse componenti confluivano tutte idealmente nell’opposizione a quel regime, perché si riconoscevano tutte nell’antifascismo. Tutto ciò è verissimo negli anni del Dopoguerra e nel periodo in cui vede la luce la nostra Costituzione, fino alla fine degli anni Sessanta: era chiaro che fascismo significava dittatura e antifascismo il suo contrario.
Mettendo naturalmente fra parentesi quanto documentato da Giampaolo Pansa, autore di saggi nei quali si evidenzia come in nome dell’antifascismo – nell’immediato Dopoguerra – nella Valle Padana si fossero consumati eccidi e misfatti (anche per vendette personali) di inaudita violenza e che nulla avevano da invidiare a quelli commessi da nazisti e fascisti. Tuttavia, ogni concetto politico – come quello di antifascismo – è naturalmente destinato ad avventure semantiche diverse e imprevedibili, in quanto inevitabilmente aggiogato al corso della storia. E la storia ci dice come almeno a partire dall’alba degli anni Settanta – paradossalmente – sotto il vessillo dell’antifascismo la violenza politica abbia celebrato in Italia (e non solo) i suoi più terribili trionfi.
In Italia, le Brigate rosse quotidianamente uccidevano o “gambizzavano” giornalisti, magistrati, sindacalisti, politici; diverse formazioni politiche della sinistra extraparlamentare cercavano di emularne le imprese; il movimento studentesco universitario egemonizzava il palcoscenico del dibattito pubblico anche utilizzando metodi di sopraffazione. Fuori d’Italia, il muro di Berlino violentava il popolo tedesco, relegandolo in una prigionia che pareva senza speranza; l’Unione Sovietica, la Cina e in genere tutti i regimi comunisti spedivano nei gulag o nei campi di rieducazione gli oppositori politici; similmente in Corea del Nord, mentre nella Cambogia dei Khmer rossi Pol Pot sterminava ogni dissenso, commettendo un vero genocidio.
Insomma, l’antifascismo era divenuto nel tempo un vessillo dal quale grondava, invocando vendetta, il sangue degli sconfitti, degli oppositori, dei dissidenti. E spesso questo antifascismo era addirittura peggio del nazismo. Basti ricordare la pagina di “Arcipelago Gulag” dove Aleksandr Solzenicyn, notando come il regime sovietico non fosse dissimile da quello nazista, osserva come mentre la terribile Gestapo, cercando la verità, ben potesse liberare il prigioniero, invece il servizio di sicurezza sovietico – Mgb – in nessun caso si lasciasse scappare chi gli fosse “capitato fra le unghie”. Né si releghi la violenza dell’antifascismo allo stalinismo: Solzenicyn la documenta fino a tutti gli anni Settanta e Andrej Sacharov fino a tutti gli anni Ottanta.
Oggi, dunque, appare impossibile, perché controfattuale, battersi per la libertà nel nome dell’antifascismo, proprio perché questo termine è stato oggettivamente delegittimato dalle vicende della storia e perciò oggi risulta logoro, inutilizzabile. Aveva ragione Pier Paolo Pasolini quando, decenni or sono, denunciando “il fascismo degli antifascisti”, metteva in guardia contro la sottile e inavvertita violenza che pervade quotidianamente la nostra società, al riparo di un antifascismo di maniera ormai divenuto un paravento per occultare ogni forma di sopraffazione. Si sostituisca dunque l’imbarazzante antifascismo con un trasparente “antitotalitarismo”: chi davvero se ne farà carico, non potrà mai nascondersi dietro questo termine. Sarà un vero campione della libertà.
Aggiornato il 15 maggio 2024 alle ore 09:54