Pare che a sinistra la parola «antifascismo» sia redditizia: moltissimi intellettuali traggono lauti benefici economici e di immagine dall’accusare di fascismo il governo di Giorgia Meloni; i politici della medesima sinistra area ne ricavano profitti non direttamente elettorali (la sinistra infatti ha – e da decenni – percentuali che non le consentirebbero di governare secondo il criterio più elementare della democrazia: hai la maggioranza e allora governi, non ce l’hai e allora stai all’opposizione), ma certo insinuare il rischio di un fascismo meloniano frutta visibilità (produce anche una colossale dose di comicità, ma non avendo il senso del ridicolo, procedono imperterriti).
L’infamante, sciocca e assurda, accusa di fascismo al governo Meloni è oggi vantaggiosa, ma è destinata con il tempo a sfumare, data la sua inconsistenza reale, e quindi quei consumati attori le affiancano ora una parola di rinforzo: illiberale. E qui il ridicolo sfocia nel grottesco. La sinistra che accusa di illiberalità il centrodestra liberalconservatore, paladino appunto della libertà contro l’illiberalismo che ha sempre caratterizzato la sinistra comunista e poi piddina, è davvero come il bue che dà del cornuto all’asino. Questi teatranti non meritano nemmeno una replica, come per esempio non la merita il discorso inscenato al Salone del Libro dallo scrittore Scurati, secondo il quale l’Italia sarebbe governata in modo «illiberale». Sconfortante: questi sarebbero gli interlocutori a cui dovremmo replicare? Anche no, per amor di sé e di patria. Ma poiché dietro alla loro invettiva si cela un’ideologia nefasta, occorre decrittarla e smascherarla.
Il fascismo, inteso come regime italiano, è stato un fenomeno complesso, sfrangiato, che ha avuto uno sviluppo interno non lineare e che ha mostrato alcuni aspetti contrastanti, differenziandosi internamente nel corso degli anni. E i giudizi definitivi di studiosi impeccabili come Renzo De Felice o Augusto Del Noce, solo per fare due nomi eccellenti, lo consegnano alla storia.
Detto ciò, che il fascismo abbia rappresentato un sistema dittatoriale è un dato acquisito e indiscutibile; che il suo capo supremo abbia affermato la «volontà totalitaria» alla base della sua azione è un fatto storico; e che un’ideologia di tipo totalitario, a prescindere dal colore, sia la negazione dello spirito non solo liberale ma anche conservatore occidentale è un’ovvietà che nessuno può disconoscere. E quindi è altrettanto ovvio che il leader di un partito di destra liberalconservatrice come Fratelli d’Italia e del raggruppamento conservatore al Parlamento europeo sia – politicamente e culturalmente – distante dall’ideologia fascista. Che questo leader debba ancora una volta dichiararsi avverso al fascismo, come pretenderebbero con ottusa insistenza i portabandiera della sinistra italiana, sarebbe ribadire la propria convinzione teorica e la propria azione fattuale. Nella melma tipica della propaganda sinistrorsa nostrana, una tale richiesta ha la funzione di gettare il discredito, la diffamazione e l’intimidazione verso quel leader che è oggi anche capo del governo. E dev’essere quindi chiaro che questa è l’unica motivazione di quella richiesta, altrimenti infondata e proprio perciò pretestuosa. E a una pretesa irricevibile non si deve, per principio, dare risposta. Gli atti e i ragionamenti di Giorgia Meloni, prima e dopo l’incarico di Presidente del Consiglio, hanno già abbondantemente espresso la sua posizione.
Un esempio, sufficiente affinché nessuno ponga più la questione fascista in correlazione con Giorgia Meloni: quando afferma che «la malvagità del disegno criminale nazifascista e la vergogna delle leggi razziali del 1938 non devono cadere nell’oblio», Giorgia ha già mostrato – definitivamente – la sua valutazione del fascismo. Punto. Se molti, a sinistra, continuano a battere su questo tasto, sono con tutta evidenza fuori strada, e quindi o sono incapaci di capire oppure sono in malafede. Immaginando che siano persone intelligenti, resta in piedi solo l’ipotesi della falsità, del cinismo, dell’ipocrisia.
È da qui dunque che deve partire qualsiasi analisi di questo (pseudo)problema e del surreale scenario che lo circonda: dall’interpretazione psicopolitica di una costante che accompagna la prassi della sinistra e che, come una coazione a ripetere, la porta sempre a riprodurre i medesimi schemi, il medesimo meccanismo di propaganda, la stessa volontà di menzogna, in ogni epoca e in ogni paese. Questa è la verità che si cela dietro alle varie maschere retoriche della «narrazione» sinistrorsa. E quindi anche la questione del fascismo è una mera copertura: l’antifascismo è come la kefiah con cui si bardano quei democraticissimi filopalestinesi che vorrebbero eliminare Israele e il suo popolo, o come la Z con la quale si identifica la pacificissima Russia putiniana che sostiene di combattere contro il «neonazismo» dell’Ucraina.
La cosmesi antifascista serve, da un lato, a colpire illegittimamente l’avversario politico e, dall’altro lato, a nascondere la propria essenza ideologica: il comunismo nelle sue svariate declinazioni. Dicendosi antifascisti, si punta il riflettore contro chi è di destra, e al tempo stesso si distoglie l’attenzione dal proprio essere comunisti, alcuni forse non nella mente ma certo nella prassi, molti altri invece nell’una e nell’altra. Un trucco, scoperto da tempo, che viene però ancora usato spudoratamente e, come abbiamo visto, con sprezzo del ridicolo, per coazione inconscia appunto o per calcolo elettorale.
Con quale credibilità infatti possono pretendere di assegnare patenti di democrazia quegli antifascisti che da sempre e ancora oggi continuano a negare la malignità dell’ideologia socialcomunista? Con quale faccia, personaggi più o meno noti si vantano del loro antifascismo mentre plaudono a regimi dichiaratamente comunisti e a tendenze marxisteggianti che continuano a produrre solo desolazione, miseria e morte? Quale credibilità liberale (e nemmeno democratica) può avere chi – per fare solo un esempio fra mille – si rifiuta di definire la dittatura castrista un regime e celebra il macellaio «Che» Guevara come se fosse un eroe? Come può essere recepita una petizione di antifascismo avanzata da chi disconosce il nesso fra l’ideologia criminogena che ha prodotto cento milioni di morti e le sue metamorfosi occidentali come il ’68 e tutti i suoi eredi e cascami attuali?
La destra ha fatto davvero i conti con il fascismo: alcuni pochissimi sono rimasti ancorati ad esso, mentre tutti gli altri sono approdati al conservatorismo liberale. Una prova? Se il fascismo vuole uno stato totale che controlla e fagocita i cittadini – come diceva il Duce: «tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato» –, oggi la destra italiana a partire da Giorgia Meloni vuole uno stato liberale, che protegge i cittadini e non li vessa, che li rispetta nella loro persona e non li adopera nella loro funzione, che rispetta i «pesi e contrappesi» con cui si strutturano e funzionano le società occidentali.
Un esempio ci viene dalla posizione netta e limpida assunta da «Giorgia» (secondo la dizione della scheda elettorale) all’epoca della pandemia: la libertà personale implica la libertà di scelta nelle cure sanitare e quindi anche nei confronti della vaccinazione. Nel caso della pandemia, fascista è la sinistra, che ha mostrato tutta la sua faccia statalista e illiberale. Lo statalismo è infatti una caratteristica del comunismo e dei governi socialcomunisti di ogni epoca. E ancora, se il fascismo – pur contestualizzando le differenti realtà storiche – ha usato le istituzioni come mezzi per imporre i propri fini, Giorgia Meloni e il suo partito sono invece al servizio delle istituzioni perché per loro il fine è la nazione (come insieme dei suoi liberi individui) e non il partito, che è un mezzo. E su questo nodo emerge, ancora una volta, l’affinità tra fascismo e sinistra, per la quale le istituzioni sono – marxisticamente – strumenti da acquisire in qualsiasi modo pur di governare, a prescindere dalle percentuali elettorali.
Se dunque la destra ha chiuso con il fascismo, la sinistra invece non ha fatto i conti con il comunismo, perché pur avendo condannato il regime sovietico, continua a guardare con la medesima vecchia fascinazione non solo a regimi comunisti, ma anche a quelle recenti ondate movimentistiche che innestano i vecchi modelli su temi nuovi, come la cancellazione del presunto colonialismo occidentale, la crisi ecologica o le teorie gender, che di fatto sono stati adottati da tutta la sinistra italiana (ed europea), i cui esponenti, politici o intellettuali che siano, continuano a vedere il mondo con il monocolo dell’ideologia e la mente offuscata dalla retorica.
Praticando la menzogna e la violenza, i cosiddetti antifa sono «terroristi letterari» (cito Richard Millet), come i mandarini dell’editoria, e vandali anti-sistema, come i teppisti dei centri sociali. I professionisti dell’antifascismo sono la trasposizione precisa di quei «professionisti dell’antimafia» che un indiscutibile nemico della mafia come Leonardo Sciascia considerava una sciagura non minore della mafia stessa. Tanto più pericolosi, quanto più spocchiosi.
Giustamente Daniele Capezzone afferma, titolando così un suo recente libro: «Basta con ’sto fascismo». E cioè, basta con ’sto antifascismo, basta con la subdola petizione di antifascismo e la fallace ripetizione delle sue presunte virtù. È ora di smascherare questo antifascismo strumentale, strillato da ipocriti e, loro sì illiberali, tamburini identici a quelli che accompagnavano i comizianti del Pci nel Novecento. La parola antifascismo oggi serve solo a veicolare di contrabbando le idee dell’immarcescibile ma formalmente impresentabile galassia comunista.
Aggiornato il 14 maggio 2024 alle ore 10:05