Perché una persona di accertata scientificità come il filologo classico Luciano Canfora arriva a esprimere opinioni pesantemente oltraggiose come quelle in cui, nell’aprile 2022, definì «neonazista» Giorgia Meloni, all’epoca capo di un partito, presidente dei Conservatori e Riformisti Europei, e oggi anche Presidente del Consiglio? A prescindere per ora dalle motivazioni, si tratta di un’autentica aggressione, di tipo sia denigratorio sia intimidatorio, a un leader politico nella sua persona e nella sua funzione. La querela dunque partì immediatamente, e doverosamente. Oggi, due anni dopo, la causa sta per essere dibattuta in tribunale.
Nonostante il palese e velenoso danno che quelle ingiurie hanno provocato a Giorgia Meloni, sul piano strettamente personale l’offesa a Giorgia nuoce infinitamente più a Canfora che alla Presidente del Consiglio, perché quest’ultima viene sì infangata nel suo pensiero politico, ma non viene minimamente intaccata nella sua moralità, unanimemente riconosciuta e apprezzata, nonostante il tentativo di disonorarne «l’animo»; mentre Canfora, con i suoi insulti, si autodenigra moralmente (e certo, anche politicamente, come vedremo). Detto ciò, la legge va invocata proprio per fare giustizia rispetto alle calunnie e per ristabilire la verità. Perciò Giorgia Meloni, querelando Canfora, ha assolto a un dovere etico, prima ancora che giuridico e politico. Con la verità non si scherza, come dovrebbe sapere uno studioso di storia antica: su ciò, Meloni non poteva e non doveva transigere, in base a un senso di responsabilità che va oltre la sua persona politica e che riguarda la storia come tale, la storia di una cultura, di un’epoca, di una nazione.
I tribunali emetteranno la sentenza giuridica – ed è ovviamente necessario che lo facciano in assoluta autonomia e serenità –, ma un verdetto etico-politico è già evidente. Nonostante ciò, imperterriti, i fautori dell’intimidazione e della denigrazione come prassi politica e culturale, eredi della vecchia e maleodorante mentalità comunista, continuano a predicare la liceità della diffamazione. Come ai tempi della guerra fredda, della propaganda sovietica, dei partiti comunisti in quanto chiese laiche e immacolati idoli della classe operaia. Come se la macchina della storia fosse ferma a quell’epoca, anzi, nell’illusione di poterla far ripartire oggi come se nulla fosse accaduto, come se il Muro di Berlino fosse ancora in piedi, come se i crimini dell’ideologia comunista non fossero stati, definitivamente, equiparati ai crimini del nazionalsocialismo, come se il popolo italiano fosse ancora vittima della sindrome di Stoccolma nei confronti dei suoi sequestratori ideologici – marxisti, trotzkisti, stalinisti, sessantottini, lottacontinuisti, politicamentecorrettisti e altro ancora – che lo attanagliano da decenni. E invece non è più così, per fortuna degli italiani tutti.
In questo senso, la querela presentata da Giorgia Meloni non è solo una testimonianza di etica pubblica, ma rappresenta anche una lezione di storia: il confronto politico autentico non si conduce con ingiurie, ma con argomentazioni, rispettando e non infamando l’avversario; e se c’è stata un’epoca in cui, per viltà o per reale paura, per lo più non si reagiva alle minacce e alle intimidazioni dell’ideologia di sinistra, alle contumelie che i sedicenti «migliori» (in quanto eredi appunto del «Migliore» di comunista memoria) lanciavano (quando non lanciavano pallottole) contro i nemici di classe, ebbene quell’epoca si è chiusa. E la Presidente Meloni è qui a ricordarcelo.
Il codice di procedura penale definisce puntualmente il reato di diffamazione: offesa alla reputazione altrui in assenza dell’insultato e in presenza di terze persone (considerate anche in senso indiretto, come lettori o ascoltatori), e lo punisce sempre in modo piuttosto pesante proprio nell’intento di dissuaderlo. Per questo motivo ma anche nell’intento di sfruttare il riflettore mediatico che si è acceso su questa querela, ecco che a ridosso dell’udienza assistiamo a penosi tentativi di minimizzazione dell’ingiuria, con arnesi del vecchio PCI transitati nel PD che, pensando di risultare simpatici, si permettono di scherzare sulla querela e di deridere la querelante: che sarà mai, in fondo si è trattato di una boutade politica da parte di un professore emerito. E al tempo stesso vediamo anche indecenti e pervicaci dichiarazioni, da parte di sodali dell’emerito, che ribadiscono lo spirito e la lettera di quell’ingiuria, sottolineandone il valore e tradendo così un meccanismo psicologico tipico di chi è messo alle corde dalla verità stessa: insistere e raddoppiare la posta.
Da un paio di giorni, a rinforzo, è arrivato anche il soccorso rosso internazionale, nella forma dell’immancabile appello alla resistenza, con cui la sinistra ha sempre puntellato le sue azioni: il quotidiano Libération pubblica il manifesto di un centinaio di docenti universitari (per lo più francesi, americani, inglesi e alcuni italiani) che definiscono un’«aberrazione» la querela della premier italiana e denunciano il «regime» che a loro dire si sarebbe instaurato in Italia. Tentano di buttarla in rissa, nell’intenzione di trasformare un processo ordinario – che ha come oggetto un presunto reato penale indagabile e perseguibile a prescindere dal destinatario della diffamazione – in un processo politico, come se il querelato fosse un perseguitato da parte di un regime totalitario. Qui il meccanismo psicologico è quello del rovesciamento delle parti: l’aggressore vuole mostrarsi come aggredito.
Di fronte a questa e ad altre querele analoghe da parte di esponenti del Governo, accomunate dalla necessità di fare giustizia e di dare quindi voce anche giuridica alla verità, come pure di tutelare l’onore delle istituzioni e della Repubblica, gli ideologi denunciati capovolgono infatti il tavolo: «i ministri sono in cerca del nemico», questa la loro tesi. Grottesco: frombolieri che colpiscono sistematicamente, e anche scompostamente come si è visto, lamentano l’aggressione da parte dell’aggredito. Così si sfascia la logica, ma a uscirne gravemente contusa è anche la morale, la politica, la società stessa.
E quindi alla domanda iniziale si può rispondere così: questi egregi studiosi hanno una configurazione mentale caratterizzata dall’ideologia che, usando una sineddoche, chiamo comunista. Del resto, quando si sostiene – contro ogni evidenza storica e politica (cento milioni di persone uccise da regimi e movimenti comunisti sono una verità incontrovertibile) – che il comunismo «è un progetto politico di emancipazione» e «un umanismo di giustizia sociale», si è dichiaratamente comunisti.
Tutta la drammatizzazione dell’episodio della querela da parte di Giorgia Meloni corrisponde esattamente ai dettami della propaganda ideologica comunista, ed è l’ennesima manifestazione di quello che definisco il metodo della menzogna, espressione della vecchia prassi staliniana secondo cui la premessa fondamentale per eliminare un avversario politico è sottoporlo preliminarmente al fango della diffamazione. Gli ideologi della sinistra agiscono davvero come se le lancette della storia fossero ancora ferme al Sessantotto o all’Unione Sovietica. I signori della sinistra si credono superiori – moralmente e culturalmente –, esattamente come si autoconcepivano i vecchi comunisti, tutti, di ogni Paese.
Oggi però queste angherie non devono più essere subìte; vanno respinte al mittente con tutti i possibili timbri giuridici. La libertà di espressione non deve assolutamente essere limitata: chiunque può dire qualunque cosa, ma se ciò che viene detto può configurarsi come reato, è eticamente necessario che venga sottoposto a giudizio penale. Chiunque sia il calunniatore, chiunque sia il calunniato. Ecco che così l’offesa può giustamente ritorcersi contro l’inveente.
Nella medesima sinistra infatti si apre qualche defezione, come il caso di un collega di Canfora, Franco Lo Piparo, il quale sul Foglio ha scritto che «sulla querela di Meloni, Canfora sbaglia nella forma e nel merito», perché «sarà un giudice, non il potere politico, a decidere se la dichiarazione incriminata ha varcato i limiti costituzionali della sacrosanta libertà di opinione: questo è il contrario del fascismo». Amicus Plato, sed magis amica veritas. Ed è anche grazie a questi dissidenti interni che si può aprire una breccia di onestà intellettuale nella compatta scorza ideologica che ancora avvolge la variegata sinistra, non solo italiana.
Querelare, per Giorgia Meloni, non è la soluzione più facile, anzi, è una scelta difficile, ma inevitabile, obbligata dal senso di responsabilità verso le istituzioni e verso gli italiani, verso la rettitudine e la parresia politica, e verso il principio della giustizia: chi si sente colpito da un’offesa ha il diritto civile e il dovere etico di denunciare, tanto più se l’offesa viene da persone pubbliche.
Aggiornato il 15 aprile 2024 alle ore 09:54