Giuseppe Conte, il grillino non-grillino; lo “sfasciacarrozze”, l’uomo di tutte le stagioni; il becchino del campo largo. Epiteti e appellativi maliziosi ci stanno tutti per qualificare un personaggio politico ambiguo, pericoloso, che per i commentatori della politica rimane un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma, per dirla con Winston Churchill.
La vicenda giudiziaria barese, che ha coinvolto amministratori locali del Partito Democratico, è la più recente manifestazione d’imperscrutabilità del leader del Movimento Cinque Stelle. Nel capoluogo pugliese la scorsa domenica avrebbero dovuto tenersi le primarie del centrosinistra per la scelta del candidato sindaco alle ormai prossime elezioni comunali. In campo due contendenti. Uno per il Pd (Vito Leccese), l’altro appoggiato dai Cinque Stelle (Michele Laforgia). Una passeggiata, visti i sondaggi che davano per sicuro vincente alla successione dell’uscente sindaco Antonio Decaro un rappresentante del centrosinistra sul candidato del centrodestra. Poi però, l’uragano. Arresti e perquisizioni ordinati dalla magistratura del capoluogo pugliese che ficca il naso nel sistema territoriale di potere del Partito Democratico. In rapida successione: un indignato non-ci-sto di Decaro contro l’ipotesi di scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose; Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia in quota dem, che interviene in suo soccorso ma con l’infelicissimo racconto di un aneddoto sigla un clamoroso autogoal. Poi altri arresti e squallide storie – ancora da dimostrare – di voti comprati e di corruzione elettorale dilagante; dimissioni “spintanee” di una gentile signora assessore regionale ai Trasporti della Regione Puglia (Anita Maurodinoia), esperta di navigazione a vela dal centrodestra al centrosinistra; presa di distanze tardiva del partito della superiorità morale persa a carte in un angiporto della Bari vecchia.
Obiettivamente, il quadro non è esaltante. Per dirla tutta: è pessimo. Purtuttavia, Bari è una terrazza che affaccia sull’Adriatico e la sua gente ha nel Dna lo stesso gene che accomuna la gente di mare. Per costoro vale l’esperienza per la quale dalla nave che affonda i primi a scappare sono i topi. In piena tempesta politico-giudiziaria sarebbe stato giusto attendersi dal capo dei pentastellati un forte richiamo all’unità. Non certo l’eroico spirito ungarettiano da Allegria di naufragi, ma almeno un dignitoso “restiamo uniti”. Invece, no. Il foggiano Conte fugge dalle primarie e si porta via il candidato. Non aspetta di sentire la partner Elly Schlein, scappa. E lo fa in nome di quell’onestà e di quel moralismo che sono stati il sepolcro imbiancato del grillismo della prima ora. E della seconda. Non è stata viltà, piuttosto miserevole opportunismo. Conte che non sa di filosofia, come non sa di politica, è un campione a fare di conto. E il calcolo che ha sviluppato sul cadavere del Pd pugliese lo ha condotto a concludere che, per le sue mire di potere su un campo che ancora non esiste e che comunque non gli apparterrebbe, la cosa più conveniente da fare sarebbe stata quella di pugnalare alle spalle la compagna Elly, ferendola. Il convincimento del sicario è che, successivamente, i sodali di partito della giovane leader, alle idi di un imprecisato mese di quest’anno o dell’anno che verrà, avrebbero finito il lavoro con l’assassinio rituale del Segretario, come da prassi nel Pd. Far vincere a Bari il centrodestra con la conseguenza di affossare la Schlein per poi costringerla a consegnargli le chiavi del centrosinistra nell’improbabile ipotesi che potesse indossare lui i costumi di scena del salvatore della patria.
Ecco dunque il progetto meschino di un novello Ghino di Tacco in un mondo nel quale i leader di partito, salvo lodevoli eccezioni, sono costruiti con materiali di scarto. Qualcuno a sinistra lo ha chiamato sciacallo. Può darsi che lo sia, visto il gesto vorace di assalire il cadavere del Pd pugliese ancora caldo. Ma non è la nostra opinione. Giuseppe Conte è la personificazione del qualunquismo, che è la matrice ideologica sulla quale è nato e ha fatto presa sulla società il grillismo del Movimento Cinque Stelle. Per troppo tempo una lettura confusa del fenomeno Beppe Grillo ha spinto gli analisti a identificare l’esperienza pentastellata con una forma innovativa e vincente di populismo del Terzo millennio. Ha ragione Piero Sansonetti che dalle colonne del suo giornale, l’Unità, ha tuonato contro Conte rivendicando in qualche misura la nobiltà del populismo. Per il vecchio comunista che piace alla buona borghesia – e a Mediaset – la differenza sostanziale tra il populismo e il qualunquismo sta nel fatto che mentre il primo avesse comunque dei contenuti di merito – per quanto discutibili – e che tali contenuti potessero talvolta essere definiti di sinistra, il secondo fosse assenza totale di visione della società mescolata ad azione politica intesa come strumento rivolto alla conquista del potere fine a sé stesso. È così, e aggiungiamo: il qualunquismo non è ideale ma umorale. Si affida alla captazione delle pulsioni dell’opinione pubblica per assemblare una qualche linea di condotta, non necessariamente sensata. Grazie a questo trasformismo camaleontico, Giuseppe Conte ha potuto recitare tutte le parti in commedia. È stato conservatore a braccetto con Matteo Salvini quando per stare a Palazzo Chigi servivano i voti della Lega ed è stato progressista quando a corteggiarlo sono stati i progressisti. Trumpiano con Donald Trump regnante; europeista anti-trumpiano con Emmanuel Macron e la signora Angela Merkel a dare le carte in Europa. Ha indossato il gilet giallo nella Parigi messa a fuoco e fiamme dalla protesta sociale, nel mentre a Bruxelles votava per Ursula von der Leyen presidente della Commissione degli eurocrati. In Nato è stato lo scolaro zelante, tra i primi a dire sì all’aumento delle spese militari e nel Parlamento italiano è stato quello che più di tutti ha urlato contro l’aumento delle spese militari. E anche adesso che in quel di Bari riscopre l’importanza di essere onesti sbattendo la porta in faccia al Pd, dimentica di far dimettere dal proprio incarico Rosa Barone, assessore regionale al Welfare e plenipotenziario del Movimento Cinque Stelle nella Giunta Emiliano.
Tanta ambiguità, che rasenta l’insolenza, trova una sola spiegazione logica: il qualunquismo. Attenzione, però. La forma propugnata dal Cinque Stelle non è la stessa del qualunquismo storico impersonato a metà degli anni Quaranta del Novecento da un personaggio pubblico che, a suo modo, godeva di buona fama: Guglielmo Giannini. Il qualunquismo contiano è fermo allo stato larvale perché è mancante della “pars construens” di cui era dotato il modello originale. Non è un dettaglio. L’assenza totale di un’offerta politica praticabile spinge il progetto contiano su una pericolosa china. A differenza dei partiti tradizionali, il cui abbattimento costituisce l’obiettivo primario dell’antipolitica qualunquista, il Movimento pentastellato non si candida a guidare l’opinione pubblica – a educarla, se necessario – ma a inseguirla. Ciò depaupera l’istituzione partito, anche nella versione surrogata di movimento, della capacità di compiere scelte impegnative e percettibilmente impopolari per il bene della nazione. Guglielmo Giannini, che era uomo d’ordine, non mancò di pensare che nel Pantheon del qualunquismo storico potesse trovare posto Amnesis, una simil dea greca dell’oblio come Lete, sorella gemella di Mnemosine, la cui azione sarebbe stata tanto più necessaria in quel preciso momento storico per consentire a un’umanità dolente e rancorosa, appena riemersa dall’immane catastrofe della Seconda guerra mondiale, di dimenticare, di allontanarsi dal peccato per poter, nel tempo, perdonare. Per questo motivo il “qualunquista” Giannini non era affatto contrario alla clemenza di Stato esercitata mediante l’amnistia. Un abisso rispetto al suo epigono che bazzica la politica ai giorni nostri.
Alla luce di tutto ciò, non è consigliabile tifare perché il leader Cinque Stelle riesca nell’intento di silurare Elly Schlein pur di prenderne il posto alla guida del futuribile campo largo del centrosinistra. Con la segretaria Pd, benché sgangherata, resterebbe in campo la politica. Con Giuseppe Conte al timone di una sinistra che non gli appartiene in nulla, le scelte più adeguate a beneficio del Paese i beneamati progressisti le farebbero giorno per giorno non prima di aver ascoltato i vaticini degli aruspici e di aver letto i presagi nel comportamento degli uccelli.
Aggiornato il 11 aprile 2024 alle ore 09:41