C’è qualcosa di subdolo nella premura di Emmanuel Macron nel tracciare l’identikit del prossimo presidente della Commissione europea.
Quando il traballante inquilino dell’Eliseo spiega ai suoi pari grado che la futura guida dell’Unione europea dovrà essere una figura che non politicizzi il ruolo, che sappia tutelare l’interesse generale ed elevarsi sopra i partiti e i Paesi, è di Mario Draghi che sta parlando. Dovremmo essere felici che un leader di primo piano pensi a un italiano per condurre l’Ue al traguardo del terzo decennio del secolo senza troppe ammaccature. Invece, non lo siamo affatto. La proposta emana un nauseante lezzo, tipico di una fregatura. Macron non è tipo da regali all’Italia, allora perché Draghi? Perché lo stima? Non la beviamo. C’è dell’altro. Il francese ha una mente astuta, in tutto somigliante al suo supporter italiano, Matteo Renzi. Per lui, la carta Draghi equivale alla classica fava con cui prendere due piccioni. E se Draghi è la fava, chi sono i piccioni? Macron sa di essere destinato a pesare poco o nulla nel prossimo Europarlamento. Eppure, non rinuncia all’idea di essere centrale nella tessitura della trama delle alleanze per il prossimo governo dell’Unione europea, magari in asse con l’omologo tedesco Olaf Scholz. È, tuttavia, consapevole di non potersi fidare più della signora Ursula von der Leyen la quale, come novello Giuseppe Conte, è pronta a cambiare cavallo e verso di marcia pur di restare in sella alla presidenza della Commissione, cioè di buttarsi a destra, in cerca dei voti dei conservatori, anziché rinnovare il patto con i socialisti. In tale schema al piccolo Napoleone non resterebbe che accettare il ruolo di junior partner in un’alleanza di centrodestra, per non restare tagliato fuori da tutto. Allora, ecco il primo piccione da far cadere in trappola.
Mettendo sul tappeto il nome prestigioso dell’ex capo della Banca centrale europea, la già claudicante candidatura della von der Leyen verrebbe spazzata via. D’altro canto, gli stessi esponenti del Partito popolare europeo, che con qualche tiepidezza hanno confermato la loro collega di partito nel ruolo di spitzenkandidaten alla presidenza della Commissione, non ne farebbero un dramma se dovessero mollarla per convergere sul nome di Draghi. Ma c’è il secondo piccione che, se lo si volesse cucinare alla maniera umbra, è altrettanto succulento: Giorgia Meloni. La von der Leyen sta facendo da mosca cocchiera al progetto egemonico del nostro premier, che nella veste di capo dei conservatori europei non soltanto intende entrare nei giochi per la scelta della futura governance comunitaria, ma aspira a essere il dominus della partita. Il passaggio obbligato per la Meloni è provare a costruire una forte partnership con il Ppe, costringendolo – se i numeri europarlamentari lo consentiranno – a guardare a destra invece che a sinistra. Riguardo a questa fase di avvicinamento alla stanza dei bottoni di Bruxelles, non è ancora chiaro quanto le possa essere d’aiuto Antonio Tajani operando di sponda all’interno del Ppe. A nostro parere, pochissimo. Più utile potrebbe rivelarsi il feeling con Roberta Metsola, attuale presidente del Parlamento europeo in cerca di riconferma nel ruolo. L’esponente politico del Ppe, originaria dell’isola di Malta, potrebbe premere sul suo partito per la blindatura della von der Leyen alla Commissione in alleanza con i conservatori. In cambio, riceverebbe l’eterna gratitudine della Meloni. Ne scaturirebbe una sorta di entent cordiale tra donne: Ursula, Roberta, Giorgia. Ipotesi per molti aspetti suggestiva. Perciò, per Emmanuel Macron emarginare Giorgia Meloni nel contesto dell’Unione europea è diventata una priorità. Non avendo più un futuro politico in patria, visto il basso gradimento che riscuote presso i suoi concittadini, il piccolo Napoleone non rinuncia a un’ascesa in sede comunitaria. Speranza che rischia di rimanere illusione se l’asse Ursula-Roberta-Giorgia dovesse avere la meglio. Al contrario, se approdasse Mario Draghi alla guida della Commissione, il piccolo Napoleone è sicuro che avrebbe maggiore agibilità politica per tessere il suo ordito egemonico. Si vede che non conosce bene Draghi, che notoriamente – per dirla con William Shakespeare – non è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni.
Fortuna, comunque, che i conti si debbano sempre fare con l’oste. E, in questo caso, l’oste è Giorgia Meloni. Posto che nessuna debba insegnare niente a nessuno, purtuttavia, se per un bizzarro scherzo del destino ci trovassimo al suo posto, faremmo molta attenzione a non farci paralizzare dai fari macroniani nella notte di Bruxelles. Quale la possibile contromossa per disinnescare la minaccia francese della proposta che non si può rifiutare? Semplicemente anticiparne un’altra, ugualmente potente. A Macron piace tanto Draghi? Lo si accontenti. Perché attendere la costituzione della prossima Commissione che non avverrà prima del prossimo dicembre? C’è una poltrona parimenti prestigiosa che sta per liberarsi a breve. È quella di presidente del Consiglio europeo che dopo le elezioni europee del prossimo 8/9 giugno sarà lasciata vacante dal dimissionario Charles Michel. Anche per ricoprire tale ruolo occorrono le caratteristiche delineate da Macron nell’individuazione del profilo giusto di presente della Commissione. Giorgia Meloni non si faccia incartare dal francese, ma rilanci con un convinto “Draghi presidente, subito!”, ma del Consiglio europeo.
Aggiornato il 02 aprile 2024 alle ore 09:35