Ma che stiamo facendo? I leader europei strologano di surreali scenari di guerra con la Russia nel mentre il terrorismo islamico ci comunica che è vivo e vegeto. Nel contempo, sul campo di battaglia le cose vanno male per gli ucraini. C’era d’aspettarselo. Le forniture d’armi da sole non bastano a risolvere tutti i mali di una guerra sbagliata. I sistemi d’arma necessitano di esseri umani che li maneggino, perciò i numeri contano. A un soldato ucraino sul campo Mosca ne può contrapporre sei, forse dieci. Con un tale squilibrio di forze come potrebbero le sorti del conflitto volgere a favore di Kiev? I leader dei Paesi Nato e dell’Unione europea, invece di prendere atto della realtà e provare a mettere in piedi una exit strategy che non penalizzi l’Ucraina oltre misura, alzano il tiro lasciando intendere che non si possa escludere totalmente l’invio di truppe occidentali al fianco dei resistenti ucraini. Sono due anni che i nostri governanti si nutrono della favola secondo la quale armare Kiev sia il modo giusto per costringere Mosca a negoziare a tavolino la propria sconfitta. Qual è stato il risultato? Che l’escalation è progredita fino a raggiungere pericolosi livelli di guardia. Se prima erano droni – giocattolo adesso siamo ai missili ipersonici. Quale sarà il prossimo livello?
Le armi nucleari tattiche? La Russia non cede, Vladimir Putin non cede. Che si fa? Si continua a imbonire le folle raccontando una stucchevole storia di buoni sentimenti e di grandi ideali, che nella realtà non esiste? Nessuno mette in dubbio che Putin sia un autocrate cinico e dispotico; che il suo potere sia fondato sul sangue degli oppositori interni; che la vita libera in quelle lande sia pura utopia; che, riguardo all’Ucraina, lui sia l’aggressore e non l’aggredito. Preso atto di tutto ciò, cosa cambia? Putin di sicuro non cambia idea e neppure potrebbe se anche lo volesse. Davvero i nostri governanti pensano che la soluzione sia sconfiggere il tiranno perché la Russia, in una prodigiosa palingenesi, divenga un modello di democrazia e libertà alla maniera occidentale? Dovesse fisicamente scomparire Putin, ne arriverebbe un altro di certo peggiore e ancor più risoluto a sostenere lo scontro con l’Occidente. I leader occidentali dovrebbero pregare iddio perché tenga in vita e in buona salute il tiranno Putin affinché provveda a fare buona guardia al colorito mondo multietnico che compone la galassia russa. In questi giorni abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione di cosa significhi trascurare la lotta al terrorismo islamico.
I sapientoni che stanno a Bruxelles e nelle principali capitali europee sanno di quante repubbliche si compone la Federazione Russa? Non esiste solo l’europea San Pietroburgo. Qualcosa si sa di Cecenia, Daghestan, Inguscezia ma sentito mai parlare di Calmucchia, Circassia, Sacha-Jacuzia, Baschiria? In Russia non sono tutti cristiani ortodossi. C’è l’Islam che fonda l’identità religioso-culturale della maggioranza dei popoli caucasici, stanziati tra il Mar Nero e il Mar Caspio. Circassi, balcari, ceceni, ingusci, cabardini, alani; avari, azeri, nogai e cumucchi del Daghestan, sono musulmani e sono russi. La democrazia borghese di matrice occidentale è una forma della politica che la natura tribale iscritta nel Dna di quei popoli non saprebbe decodificare. Figurarsi applicarla alle proprie istituzioni. La sconfitta di Putin, per assurdo, spalancherebbe le porte dell’inferno alla nostra civiltà. La cruda verità è che la fine del centralismo imperiale moscovita provocherebbe lo sgretolamento della Federazione e con esso l’anarchia e il caos, con tanti dittatori disposti a ricattare il mondo attraverso l’arma del terrorismo religioso. Piccoli, spregiudicati, violenti satrapi pronti a spartirsi la torta delle 6mila testate nucleari che fanno della Russia, sul piano degli armamenti, la seconda potenza globale dopo gli Stati Uniti. Eppure, per gli zelanti governanti europei il nemico numero uno non è il terrorismo islamico ma Putin.
E per insultare l’intelligenza di chi chiede pragmatismo e lucidità nel trattare il dossier russo-ucraino, non trovano di meglio che torcere la Storia mediante un paragone che non ha capo né coda. Cosa dicono? Che cedere su un negoziato che non contempli la restituzione a Kiev dei territori occupati sarebbe ripetere l’errore compiuto dalle nazioni europee alla Conferenza di Monaco del 1938 quando Francia, Gran Bretagna e Italia autorizzarono la Germania ad annettere i Sudeti cecoslovacchi abitati in prevalenza da popolazioni di lingua tedesca. La conseguenza fu la Seconda guerra mondiale, oggi sarebbe l’invasione russa della Finlandia, della Polonia e delle Repubbliche baltiche ex sovietiche. Ma che paragone è? La differenza abissale tra i due momenti storici è che nel 1938 Adolf Hitler stava allestendo il più potente esercito che avesse calpestato il suolo europeo fino a quel momento. Oggi Putin non costituisce una minaccia reale per l’Europa. Viste le difficoltà a imporsi in Ucraina dopo due anni di conflitto, qualcuno pensa seriamente che lo zar possa immaginare di muovere guerra a un Paese della Nato? Se proprio si volesse stabilire un parallelo con un episodio del passato, quello che fa al caso riguarda gli alti comandi Nato alla metà degli anni Settanta.
Al quartier generale dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles nel 1977 – fummo diretti testimoni – si respirava una bizzarra aria di scollamento tra le strategie pensate e implementate dagli staff anglo-americani e quelle degli altri Paesi. Mentre gli esperti del Continente si attardavano a disegnare improbabili impatti dell’Armata rossa sul fronte di difesa costituito da una sorta di “Linea Maginot” da Lubecca a Gorizia, con tanto di stima del numero di carri armati e fanterie corazzate del Patto di Varsavia pronte a sfondare in più punti il fronte, gli anglo-americani si dedicavano a monitorare ciò che bolliva in pentola nel quadrante Medio-orientale, snobbando quello europeo. Perché? Dalle ricognizioni dei satelliti spia si evidenziava che i sovietici avevano spostato sul confine con gli Stati europei occidentali le batterie missilistiche poste precedentemente a difesa dei silos di grano ubicati nelle aree interne. Cosa significava? Semplicemente che i silos erano vuoti a causa del fallimento del Piano quinquennale agricolo 1971-1975, che non raggiunse gli obiettivi fissati dal XXIV Congresso del Partito comunista dell’Urss – fu segnata una perdita media annua di grano di 70 milioni di tonnellate – e perciò non c’era nulla da difendere.
Al contrario, i missili sarebbero stati più efficaci come deterrente se piazzati a ridosso della cortina di ferro. E come potrebbe uno Stato combattere una guerra di movimento senza avere sufficienti scorte alimentari per sfamare i soldati e i civili? Non può. É la conclusione a cui erano giunti gli strateghi anglo-americani: l’Urss restava una minaccia per il suo arsenale atomico ma non per la sua capacità offensiva con strategie d’attacco convenzionali. La Storia si è incaricata di dargli ragione. Oggi non è molto diverso. L’economia russa è stata indebolita dalle ondate di sanzioni che l’Occidente ha varato; lo sforzo dell’industria bellica per ammodernare rapidamente l’apparato di difesa da impiegare nella crisi ucraina è costato caro; il numero dei morti russi contabilizzati dall’inizio “dell’Operazione speciale” rende impossibile programmare una qualsiasi altra guerra. Da ieri l’altro poi, si è palesata la pessima qualità del lavoro dei servizi segreti interni russi che non hanno saputo prevenire la feroce strage provocata da quattro farabutti assoldati da qualche entità jihadista. Sarebbe il momento propizio per chiudere qui la partita ucraina. Posto che non vi potrà mai essere un accordo di pace senza le restituzioni territoriali, la soluzione possibile resta il cessate il fuoco a tempo indeterminato, come fu per la guerra di Corea. Ciò comporterà che Mosca si terrà quella lingua di Donbass strappata all’Ucraina? Sì. Non è confortante ammetterlo ma la grande politica altro non è che il conseguimento del possibile in luogo di un irrealistico desiderabile. C’è il terrorismo jihadista di cui occuparsi e l’Occidente non può farlo se non ha dalla sua il guardiano dell’infido pascolo caucasico. Da Vladimir Putin mai compreremmo un’auto usata, tuttavia occorre che stia dalla nostra parte nella guerra al vero, irriducibile nemico ontologico dell’Occidente. Facciamocene una ragione.
Aggiornato il 28 marzo 2024 alle ore 09:38