Il “fronte largo” universitario contro tolleranza e competizione

Dove sta andando l’università? Quale demone irrazionale si è impossessato dei luoghi in cui si fa ricerca e si formano le nuove professionalità, insieme alla classe dirigente di domani? È legittimo porsi queste domande, se si considera che quello che dovrebbe essere il luogo della massima libertà di espressione è ormai diventato in troppe circostanze il regno dell’intolleranza, della repressione e del dogmatismo.

L’ultimo episodio riguarda Torino, dove i responsabili dell’università – a seguito della richiesta avanzata da gruppuscoli studenteschi dai nomi “Progetto Palestina” e “Cambiare rotta” – hanno deciso di non partecipare al bando del 2024 per la cooperazione con Israele. Si tratta, molto semplicemente, di un aperto boicottaggio nei riguardi dell’università di Tel Aviv: un gesto ingiustificabile esattamente come lo furono, negli scorsi anni, quelli compiuti a danno dei docenti e dei ricercatori di Mosca e San Pietroburgo. D’altra parte, se il Senato accademico torinese ha “ceduto” di fronte alle richieste di minuscole associazioni rumorose, è perché (presumibilmente) in realtà non aspettava altro.

Da anni l’università è allineata al politicamente corretto, e la riprova sta nel fatto che un movimento molto più corposo e significativo – quello degli studentino green pass” – non fu mai preso in considerazione nella richiesta di veder tutelati i diritti di tutti gli studenti. Se ieri nelle accademie la parola d’ordine era discriminare quanti non volevano subire un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio), oggi la parola d’ordine è fare tutto il possibile per colpire una popolazione (quella di Israele) che non ha nulla a che fare con le violenze di Hamas e neppure con le reazioni del Governo di Gerusalemme.

L’università non coltiva il dubbio: al contrario, vive di certezze e logiche manichee. E l’abbiamo visto con le toilette della Bocconi, dove il semplice constatare che la scelta dei bagni “gender free” era figlia di una ben precisa prospettiva ideologica – quella abbracciata da John Money e Judith Butler, ad esempio – ha comportato che tre studenti fossero colpiti con 6 mesi di sospensione e qualche altra pena accessoria, finalizzata a mostrare che si trattava di un vero ravvedimento. Perché punire non basta: bisogna anche che il colpevole si “converta” ai dettami delle verità di regime.

Un giurista e scrittore sardo, Salvatore Satta, rilevò una volta come ormai la pena sia nel processo. E che dire allora di quanto è successo a Emanuele Castrucci, filosofo del diritto di fama e importante studioso di Carl Schmitt, che prima è stato messo alla gogna per un suo post su Twitter (con un’esposizione mediatica che ha superato i confini nazionali) e poi è stato assolto due volte? Il procedimento penale nei suoi riguardi, infatti, ha conosciuto un primo e un secondo grado, dato che dopo l’assoluzione il pubblico ministero aveva pure fatto ricorso. È ovvio che s’intende colpirne uno per educarne cento, e non si può dire che il metodo sia inefficace.

D’altra parte, ormai la lista degli studiosi non allineati che negli ultimi anni sono finiti nel tritacarne è lunghissima e perfino chi segue con interesse queste vicende sa di non avere sotto controllo la situazione. Soltanto tra il 2019 e il 2021 sono finiti sotto accusa e/o nel tritacarne mediatico molti docenti dei nostri atenei: da Giovanni Gozzini a Luigi Marco Bassani, da Francesco Venier a Emanuele Castrucci, da Donato Mitola a Luca Bernardini, da Simon Levis Sullam a Spartaco Pupo, a Donatella Di Cesare (ma l’elenco sarebbe ben più lungo). Ogni caso fa a sé, naturalmente, e non è la stessa cosa esprimere il proprio plauso dopo un’azione squadristica a danno di studenti, insultare con espressioni volgari una parlamentare, criticare nei social network il ruolo politico del Presidente della Repubblica, condividere un meme sulla politica americana, apprezzare l’esposizione a testa in giù nella vetrina di una libreria di un volume di Giorgia Meloni, citare David Hume, esprimere il proprio cordoglio per la perdita di una amica di cui si condividevano gli ideali rivoluzionari, e via dicendo.

Va aggiunto che in qualche caso l’università non si è mossa e che le misure censorie adottate sono state assai differenti da caso a caso. Purtroppo, però, è ormai passata l’idea che forma e contenuto degli scritti – e non soltanto degli scritti! – di quanti operano nell’accademia debbano essere esaminati da “commissioni etiche”. E poi c’è chi – come chi scrive – ha dovuto leggere sui giornali una presa di posizione contro di lui del proprio direttore di Dipartimento (e questo perché nel biennio delle follie pandemiche avevo criticato in piazza Bra, a Verona, la deriva cinese presa dall’Italia) e chi è stato bollato come “putiniano” solo perché sconsigliava di soffiare sul fuoco di una guerra – quella tra Russia e Ucraina – che fin dall’inizio non prometteva nulla di buono. Questa, però, è solo la superficie. Anche perché molte delle vessazioni sono invisibili: come nel caso di quel docente che, durante il biennio pandemico, è stato “denunciato” al direttore di Dipartimento da un collega delatore, in quanto era entrato in università dal retro e senza la prova del tampone compiuto nelle ultime 48 ore. L’università italiana ha conosciuto pure questo e non può esserne fiera.

Ora tale mondo ingabbiato e ideologizzato mostra di avere un programma ben preciso: da un lato si propone di difendere tutti i punti forti del progetto ideologico che piace alla gente che piace (un mix di assiomi accolti acriticamente e quindi ben poco scientifici, che vanno dall’origine antropica del cambiamento climatico fino alla gender theory, solo per citare due capisaldi di questo pensiero unico); dall’altro punta in tutti i modi ad avversare ogni competizione, specie se privata, nella convinzione che questa università statizzata e senza pensiero possa durare anche senza un autentico confronto delle idee e una ricerca affrancata da ogni censura.

L’università in cui cresce l’intolleranza e in cui si moltiplicano episodi di repressione delle idee dissidenti è infatti la stessa che ora ha dichiarato guerra agli atenei telematici, che vengono diffamati utilizzando strategie che erano ben note ai maggiori propagandisti del secolo scorso. Infatti, si prende una realtà complessa (le università online sono 11) e poi si focalizza l’attenzione su una oppure due (la Unicusano di Stefano Bandecchi, in particolare), si mischiano luoghi comuni e radicati pregiudizi su tutto ciò che è nuovo, si fa leva sul timore dei professori di trovarsi un domani entro un contesto competitivo – che magari metta in discussione il “posto fisso” alla Checco Zalone – e si tratteggia questo universo accademico innovativo come legato al nemico per eccellenza, e cioè alle “destre”. Si tratta di una rappresentazione a dir poco deformata, ma che serve a compattare quella che sotto tanti punti di vista è un’alleanza di rettori e baroni universitari che osservano la realtà senza riuscire a vedere molto al di là del loro piccolo mondo: fatto di astruse normative, privilegi di vario tipo, cascami ideologici del Sessantotto e gratificazioni simboliche incomprensibili per chi non è parte di quell’universo e ne ignora i segreti.

Dinanzi alle pretese di questo “fronte largo” dell’accademia progressista e di Stato, il Governo di centrodestra s’è mosso poco e male, manifestando un vero e proprio complesso d’inferiorità dinanzi a quanti hanno egemonizzato l’universo delle parole e delle idee. C’è l’esigenza di una svolta e in tempi rapidi: prima che sia troppo tardi.

Aggiornato il 22 marzo 2024 alle ore 09:14