Salvini l’eretico, come Bogomil e fra Dolcino

Bisogna andarci piano nel dare dell’eretico a Matteo Salvini. È il viziaccio della politica praticata dai mediocri di esporre al pubblico ludibrio colui di cui non riesce a contrastare con solidi argomenti le traiettorie di pensiero. Lo prova la gazzarra scatenata sul commento del leader leghista al risultato delle Presidenziali in Russia. Matteo il putiniano; Matteo, il fan degli autocrati; Matteo, che attenta all’unità del centrodestra; Matteo, il disertore che abbandona il campo atlantico ed europeo per stare con il nemico. Tutto qua ciò che i detrattori sanno dire della sua posizione politica? E poi, cosa avrebbe detto il “capitano” di tanto sconveniente da destare scandalo? Testualmente: “Quando un popolo vota ha sempre ragione, le elezioni fanno sempre bene sia quando uno le vince, sia quando uno le perde”. Basta questo per asserire l’esistenza di un patto scellerato tra la Lega e pezzi dell’apparato di potere putiniano? Basta questo per concludere che Salvini legittima il voto insanguinato in Russia? No, che non basta. L’analisi sintetica del voto russo offerta dal capo leghista è sostanzialmente una presa di coscienza di un dato di realtà. Quella vista in mondovisione recarsi alle urne è la Russia. D’accordo, il paradigma della libertà ridotto a simulacro del diritto sovrano dell’individuo di scegliere da chi essere governato può non piacere.

Non rispetta gli standard che le democrazie occidentali hanno stabilito perché l’esercizio della libertà di voto sia realmente tale. Il sistema elettorale russo è decisamente lontano da quei parametri. Nondimeno, la stragrande maggioranza del popolo russo lo accetta, non perché vi sia costretta ma perché lo condivide. Gli occidentali tendono a rimuovere l’elemento della condivisione preferendo immaginare che la sparuta pattuglia di manifestanti contro il regime mostrata dai media in mondo visione altro non sia che la punta di un iceberg destinato a provocare da un momento all’altro una frattura rivoluzionaria d’intensità tale da spazzare via il potere putiniano e tutti i suoi addentellati. Gli occidentali non comprendono il grado di resistenza dei russi alle sanzioni imposte dall’Unione europea e dai Paesi dell’Alleanza Atlantica. E neppure hanno compreso la ragione profonda per la quale non Putin ma la Russia non perderà la guerra contro l’Ucraina. D’altro canto, è dalla caduta dell’Unione sovietica che l’Occidente persevera nell’errore di considerare la Federazione Russa una nazione avviata a un percorso di occidentalizzazione delle istituzioni rappresentative della volontà popolare, dell’architettura statuale, bruscamente interrotto dall’avvento di una dittatura regressiva al vertice dello Stato. Non è mai stato così.

La Russia è un impero. Può non piacere, ma è così che si percepiscono gli abitanti di quella immensa terra che sta tra il Mar Baltico e l’Oceano Pacifico. E la natura imperiale di una nazione multietnica, attraversata da una pluralità di culture e tradizioni, non può prescindere dalla presenza di una figura carismatica di sintesi, punto terminale di confluenza e coordinamento di tutte le verticali del potere. L’elemento soggettivo della personalità del capo conta ai fini della scalata al vertice. Successivamente, il corpo fisico del leader si sublima nella mistica del Piccolo padre a cui un’entità superiore – che sia Dio, la Rivoluzione del proletariato o il voto democratico non fa differenza – affida il destino della Grande Madre Russia. Gli uomini cambiano – Pietro il Grande, Iosif Stalin, Nikita Krusciov, Leonid Brežnev, Boris Yeltsin, Vladimir Putin – il principio resta. Domani vi sarà un’altra persona in cima alla catena di comando ma avrà il medesimo potere autocratico e la medesima forza d’impatto sui cittadini.

Una forma di Governo che ammetta la totale libertà nell’aggregazione elettorale del consenso e l’alternanza nella gestione del potere non potrà mai esserci fin quando esisterà l’unica patria, la grande madre Russia. In effetti, solo una volta tra il 2008 e il 2012 c’è stato un passaggio di testimone al vertice dello Stato. Fu quando Dmitrij Medvedev prese il posto di Vladimir Putin il quale, a sua volta, assunse la carica di Primo ministro. Ma si trattò di una pantomima per convincere gli occidentali dei progressi fatti sulla via della piena democratizzazione del sistema politico. Noi occidentali dobbiamo farcene una ragione. Fingere che Putin possa essere accantonato in nome del trionfo della democrazia è un pericoloso gioco di specchi deformanti. Già, perché delle due l’una: o i leader dell’Occidente prendono atto della realtà e si predispongono a dialogare con il detentore di un potere assoluto, oppure decidono che il male, impersonato da un autocrate, debba essere estirpato dal ventre della Russia a qualunque costo.

Per farlo c’è un solo modo: muovere guerra all’impero. Ogni altra strategia furbesca dell’armiamoci – e – partite non funziona. Pensare di sconfiggere il male combattendolo per interposta nazione (l’Ucraina) sta recando più danni che vantaggi all’Occidente. Si vuole affrontare Putin in una sorta di sfida all’O.K. Corral planetario? Allora si metta nel conto la Terza guerra mondiale. Si obietterà: non si può precipitare il mondo nella catastrofe nucleare e provocare l’estinzione del genere umano. Ma se è questo che vogliono i governanti occidentali lo dicano apertamente e si assumano la responsabilità della scelta. Altrimenti, dessero un taglio alle vagonate di retorica ipocrita con le quali inondano le tormentate coscienze dei loro governati. Pensate che si esageri? Ma come si può dare credito a una schiera di leader di Stati del mondo libero che ufficialmente fa fuoco e fiamme contro l’odiato tiranno, salvo poi chiedergli riservatamente un aiuto nel mettere a disposizione la rete ferroviaria russa, adesso che gli Houthi bombardano il traffico mercantile nel Mar Rosso. All’Europa serve Vladimir Putin. Per trasferire più rapidamente le merci da Occidente a Oriente e viceversa, si dimentica l’odio verso il tiranno, alla faccia della coerenza. Quelli bravi la chiamano realpolitik.

E il cattivo sarebbe Salvini, solo perché dice a voce alta ciò che molti degli allineati al pensiero unico pensano riguardo ai rapporti di forza con l’impero del male. Allora a cosa serve criminalizzarlo? E forse lui l’untore la cui colpevolizzazione è funzionale alla rimozione psicologica del senso d’impotenza vissuto dai governanti occidentali per una crisi che non sanno gestire? Matteo Salvini intercetta un diffuso disagio avvertito da una parte degli italiani che ancora oggi, a distanza di due anni dall’inizio del conflitto russo-ucraino, si chiede il perché della guerra. Soprattutto, si domanda perché dovrebbe un giorno trovarsi a combattere contro i russi i quali, per affinità storiche e culturali, sente più vicini di quanto lo siano popoli e Stati con cui si fanno affari nonostante non ci sia nulla da condividere dei loro modelli sociali e culturali.

Alle parole di Salvini ha comunque replicato Antonio Tajani, nella doppia veste di ministro degli Esteri e di leader di Forza Italia: “Le elezioni sono state caratterizzate da pressioni forti e anche violente. Navalny è stato escluso da queste elezioni con un omicidio, abbiamo visto le immagini dei soldati nelle urne, non mi sembra che sia un’elezione che rispetta i criteri che rispettiamo noi. La politica estera la fa il ministro degli Esteri”. Parole che sentenziano una sconfessione del giudizio espresso da Salvini sulle elezioni in Russia. Tajani ha mostrato fermezza nel ribadire la posizione atlantista ed europeista del Governo Meloni. Per questo merita un plauso. Complimenti a lui per la grinta esibita nel censurare l’alleato eretico. Resta tuttavia una domanda, che è più una curiosità, alla quale ci farebbe immenso piacere che l’interessato rispondesse. Caro Tajani, se Silvio Berlusconi fosse stato ancora in vita, lei si sarebbe espresso sulla vicenda russa col medesimo tono assertivo e sprezzante?

Aggiornato il 21 marzo 2024 alle ore 09:20