Sassolini di Lehner
Il sottoscritto darà il suo voto e inviterà a votare soltanto l’Esecutivo capace di varare una riforma della giustizia verticale, tale da risanare e ri-costituzionalizzare la esondante casta faraonica togata, Consiglio superiore della magistratura compreso. Ergo, non sono affatto un acritico estimatore dell’Esecutivo di Giorgia Meloni, che non mi pare abbia le forbici giuste per tagliare le unghie alle toghe di lotta e di governo. Al momento, Palazzo Chigi, irretito dalla possibile reazione della casta togata, non osa neppure garantire i diritti dei giudici onorari, come richiesto dalla stessa Unione europea. Tuttavia, mi disgusta l’opposizione volgare e parolacciara a Giorgia, che proviene soprattutto da Dagospia. La creatura di Roberto D’Agostino, un tempo ispirata e saggiamente consigliata da Francesco Cossiga, per anni ha ben rappresentato, con divertita leggerezza, la cultura laica e liberale, del tutto aliena dalla intolleranza trinariciuta.
D’Agostino, del resto, fu leggiadro autore di un magistrale e liberatorio Come vivere, e bene, senza i comunisti. La prima guida a ciò che conta veramente nella vita. Cossiga, Vate di Roberto, ebbe l’onestà intellettuale di stigmatizzare la svendita dei beni statali all’edace finanza internazionale. La svendita, del resto, fu l’esito di Mani pulite, giudiziaria e mediatica, che affossò i partiti, in primis il Partito socialista italiano di Bettino Craxi, che non avrebbero mai accontentato la voracità della City di Londra e di Wall Street. Cossiga definì Mario Draghi “vile affarista… liquidatore dell’industria… della svendita dell’industria pubblica italiana”. Troppo dura fu la picconata?
È vero che l’allora direttore generale del Tesoro, il 2 giugno 1992, sale a bordo del Britannia, panfilo della regina Elisabetta, per perorare le privatizzazioni dei gioielli di Stato. Dopo l’inchino ai padroni (“signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico”), è vero che Draghi si dilunga sulla provvidenzialità delle liquidazioni, al fine di ridurre il debito pubblico, aumentare la produttività, migliorare le utilities, e tante altre felici conseguenze che, in verità, non si verificheranno mai.
È vero che dall’orazione “britannica” sulle privatizzazioni piace assai ai pescecani della finanza e ha gradimento dal “mercato”. È vero che da lì la carriera prende il volo pindarico. Dopo la carica a vicepresidente di Goldman Sachs per l’Europa (2002-2005), diventa governatore della Banca d’Italia. Dalla importante postazione, Draghi dovrebbe vigilare sui misteriosi, disastrosi e suicidari percorsi di Montepaschi. La Corte d’appello di Firenze rimarca che fu proprio Draghi a firmare (17 marzo 2008) l’incauta autorizzazione all’acquisto della disastrata Antonveneta da parte di Mps. Come presidente della Banca centrale europea (2011- 2019) dà il meglio di sé, preservando l’euro e la tenuta europea -–altro che Christine Lagarde! – con tassi d’interesse prossimi allo zero.
Il 13 febbraio 2021, sale a Palazzo Chigi. Come presidente del Consiglio affronta la pandemia, quindi le ricadute interne dell’aggressione russa all’Ucraina. A nessun premier, a memoria d’uomo, nonostante immancabili carenze, giungono tante carezze, apprezzamenti, inni e genuflessioni come al tecnocrate Mario. Ciò quasi a significare che la politica è morta, quindi da sostituire con i “tecnici”. È l’eco del peggior Platone, il precursore dei totalitarismi: il Governo spetta a quelli che sanno, agli altri tocca solo il dovere di ubbidire. Infatti, il Nostro viene rappresentato come il Principe di Niccolò Machiavelli, il leader dotato di tutte le virtù. Lui sa. Ed è, in aggiunta, pure romanista, nel senso di giallorosso. Comprensibile, dunque, che miri al Quirinale. Il destino cinico e baro fa sì che i maledetti incompetenti politici gli preferiscano Sergio Mattarella. Nel luglio 2022 la crisi di Governo.
Al di là dei giudizi più o meno positivi su Draghi premier, ciò che salta agli occhi sono due caratteristiche: è uomo di parola e di grande potere. Se gli sei amico o soltanto utile, manterrà gli impegni presi. La prova? Riesce quasi a dimidiare la presenza parlamentare dei Cinque stelle, convincendo Luigi Di Maio allo scisma. Tutti gli scismatici non hanno fortuna, ma Di Maio sì. Draghi lo ripaga. Il più potente fra i potenti in quel di Bruxelles lo fa nominare (1° giugno 2023) rappresentante speciale della Ue nel Golfo Persico sino al febbraio 2025 (dai 13mila ai 16mila euro netti al mese, rimborso spese, benefit, staff remunerato, passaporto diplomatico, immunità). Di Maio ottiene anche la delega per i rapporti con l’Iran.
Ebbene, stando ai lecca-lecca di Dagospia a Mario Draghi (Meloni… soffre di un maledetto complesso di inferiorità nei confronti della riconosciuta autorevolezza internazionale di SuperMario) è lecito ipotizzare, magari con qualche percentuale di errore, quanto segue:
1) Roberto legittimamente, ma forsennatamente, opta per Mario regnante tutta la vita;
2) Roberto ritiene che le male parole su Giorgia convengano a Mario.
Se l’Esecutivo Meloni, nonostante la solida maggioranza, dovesse ammalarsi di spread, di Goldman Sachs, di George Soros, di Commissione europea, di Vladimir Putin e defungere, allora chi altri, se non Draghi, dovrebbe essere chiamato a salvare la Patria? Del resto, la stessa Elly Schlein – per la serie nessuna alternativa a Meloni, se non Draghi – è trattata da Roberto come la più scema del villaggio politico. Mario aspirava al Colle e, da trombato totale, deve aver patito non pochi versamenti di bile. Se è giustificabile la voglia di rivincita, tornando presto come Cincinnato Due, non si capisce quale sia il tornaconto dalla caduta nel baratro di Draghi-spia: da divertente e liberale fonte di gossip e di notizie, spesso in anteprima, a truce e sguaiato vernacoliere.
Da normale e motivata critica alla maggioranza, ai ministri, al capo del Governo, Dagospia, giorno dopo giorno decade al cattivo gusto da ultras, con un lessico tipo “arbitro cornuto”. Ed ecco un parziale campionario quotidiano: “Duciona”, “Ducetta”, “Melona”, “poverina”, “Zampone della Meloni”, “sora Giorgia”, “Evita della Garbatella”, “sostituisce il cervello col manganello”. Non si tratta più di critica incisiva, bensì di disprezzo, tanto più incomprensibile, perché infierisce, come fosse vergognoso, addirittura sull’essere nativi di Roma. Eppure, Roberto D’Agostino è romano e romanista, così come Mario Draghi, Giorgia Meloni e, ahimè, il sottoscritto.
Aggiornato il 18 marzo 2024 alle ore 09:31