Cos’è la guerra? Delle molte definizioni che il pensiero filosofico ci ha offerto, quella che ci convince di più appartiene a Carl von Clausewitz. Ma non si tratta della solita abusata locuzione della quale però pochi hanno compreso fino in fondo il significato autentico, cioè: “La guerra è la politica dello Stato proseguita con altri mezzi”. È un’altra che recita “(la guerra) è un conflitto di grandi interessi che si risolve nel sangue”. Di regola, l’Italia dovrebbe tenersi lontana da tale modalità di soluzione nella difesa dell’interesse nazionale. L’articolo 11 della Costituzione al primo capoverso è chiarissimo sul punto: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Tuttavia, ciò che il principio normativo sancisce è un’aspirazione deprivata di cogenza perché deve fare i conti, ai fini della sua efficacia, con il più stringente principio di realtà.
Cosa vogliamo intendere? La diciamo dritta: vi sono fasi congiunturali, momenti, o chiamateli pure tornanti della storia nei quali non basta reagire all’offesa porgendo la guancia della diplomazia. Vi sono circostanze nelle quali restare fermi a fronte di un attacco subìto può essere esiziale per l’esistenza stessa dello Stato o per la sicurezza e il benessere dei suoi cittadini. È in quei momenti unici, speciali, nella vita di una comunità che occorre decidere quale sangue debba scorrere, se quello proprio o quello dei propri nemici. E tale decisione fa tutta la differenza del mondo. Ora, c’è un posto lontano dall’Italia, un punto microscopico sulla carta geografica della Terra, lo Stretto di Bāb el-Mandeb che separa la Penisola arabica dal Corno d’Africa dove, senza che noi italiani lo avessimo voluto o cercato, si stanno giocando i destini della nostra economia, e con essi quelli del nostro benessere e della nostra sicurezza. La storia è nota. Bāb el-Mandeb è la porta d’ingresso al Mar Rosso e, di conseguenza, al Canale di Suez. Da quel collo di bottiglia passa il trasporto marittimo del 12 per cento delle merci mondiali. Più propriamente, dovremmo dire: passava. Già, perché da quando la milizia yemenita dei terroristi Houthi ha cominciato a colpire le navi occidentali – non quelle russe e cinesi – in transito nello Stretto, motivando gli attacchi come rappresaglia attuata contro le navi battenti bandiera degli Stati amici di Israele, il traffico mercantile ai primi di gennaio è crollato del 35 per cento (fonte: Ispi).
L’Europa paga un conto salato all’iniziativa terrorista. Ma il maggior danno è per il nostro Paese. Considerando che dai porti di Genova, Venezia, Trieste, Gioia Tauro, Augusta e Livorno approda nel Paese il 54 per cento delle importazioni marittime italiane e parte il 40 per cento delle esportazioni, una diminuzione del 20 per cento, rilevata nei primi giorni dell’anno, è un colpo al cuore della nostra economia che rischia di mandarci al tappeto. A ciò si aggiunge l’allarme inflazione, determinato dall’inevitabile aumento dei costi di trasporto delle merci che per giungere a noi dall’Oriente dovranno allungare la rotta circumnavigando l’Africa. Ai danni diretti bisogna sommare quelli indiretti. La crisi di Suez reca all’Egitto una perdita economica annua stimata in 4 miliardi di dollari, circa l’1 per cento del Pil. Se nel Paese nordafricano, che versa in cattive acque riguardo alla condizione finanziaria, dovesse acuirsi la crisi sociale, vedremmo decuplicarsi il numero dei disperati pronti a lasciare clandestinamente l’Egitto per cercare fortuna a casa nostra.
Per fare fronte alla crisi esplosa nel Mar Rosso, gli Stati Uniti – con un gruppo di alleati – prima e l’Unione europea dopo hanno dato vita a due distinte missioni navali a protezione del traffico marittimo dagli attacchi Houthi. L’Italia ha impegnato nella missione denominata “Eunavfor Aspides” il cacciatorpediniere Caio Duilio (D554) che in pochi giorni è intervenuto abbattendo tre droni Houthi destinati a colpire le navi in transito. Come prevedibile, i terroristi non l’hanno presa bene. Ieri l’altro un portavoce dell’organizzazione terrorista ha accusato l’Italia di essersi schierata dalla parte dei loro nemici, cioè di stare con Israele. In effetti, è così. Hanno ragione, non siamo e mai potremmo essere loro amici. Potrebbe sembrare banale dirlo, ma in una fase storica che rischia di annegare in un mare di ambiguità e di tradimenti, meglio essere chiari. Già, perché non tutti lo sono.
Lo avete sentito il redivivo Luigi Di Maio? Per i poco informati l’ex grillino, silurato in politica, si è riciclato nella diplomazia. E cosa ha detto l’ineffabile “Giggino”, evidentemente non pago dei disastri combinati al tempo della sua permanenza al ministero degli Esteri? Intervenendo alla fiera LetExpo a Verona nella qualità di rappresentante speciale della Ue nella regione del Golfo (Persico), sugli ultimi avvenimenti ha dichiarato: “Noi come Unione europea guardiamo ad Aspides, la nuova missione europea nel Mar Rosso a comando italiano, come soluzione di breve termine, ma sul lungo termine è la diplomazia che deve arrivare ai risultati strutturali”. Che accidenti vorrebbe significare? Che per adesso facciamo un po’ di scena ma ci prepariamo a un accomodamento – quelli bravi lo chiamerebbero appeasement – con chi ci distruggerebbe se solo avesse la forza di farlo? Per quanto ci riguarda, gli unici argomenti di una qualche efficacia che possiamo usare con i terroristi sono e restano i missili Aster 15 e 30, i quattro lanciatori binati per otto missili antinave Teseo e i proiettili da cannone, di cui nave Duilio dispone. Ebbene ribadirlo: con loro non si tratta.
Il signor Di Maio ci renda felici, vada a dispensare altrove le perle di saggezza distillata dal corpo esanime del disfattismo grillino. Qualche anno fa l’ideologia della resa, di cui i Governi Conte I e II si sono fatti interpreti e protagonisti, ci è costata la perdita d’influenza sul Governo libico di Tripoli, a beneficio dei turchi e di Recep Tayyip Erdoğan il quale, uscita di scena l’Italia, è diventato di fatto il lord protettore dell’Esecutivo tripolino guidato da Abdel Hamid al-Dabaiba. Sempre il fantastico duo Giuseppe Conte-Luigi Di Maio ci ha complicato la vita nei rapporti con gli Emirati arabi uniti al punto che, nel luglio del 2021, il Governo di Abu Dhabi ha sfrattato il nostro contingente aeronautico dalla base aerea di Al Minhad – caso rarissimo nelle relazioni internazionali – presa in locazione dall’Italia nel 2003 e utilizzata come base avanzata per le operazioni in Afghanistan, Kuwait e Iraq. Motivo della ritorsione emiratina: l’annullamento dei contratti di vendita delle bombe prodotte da Rwm Italia per Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti, deciso dal Governo Conte. Le bombe venivano utilizzate nel conflitto yemenita e adesso, guarda caso, Luigi Di Maio viene a spiegarci che dobbiamo trattare con gli Houthi che sono yemeniti. Il ragazzo proprio non ce la fa a stare lontano dagli affari italiani. Si occupi piuttosto dell’incarico affidatogli da Bruxelles per “grazia ricevuta”, che a difendere gli interessi italiani nel mondo c’è chi ci pensa. Che per nostra fortuna nulla ha a che spartire con Beppe Grillo e Giuseppe Conte.
Aggiornato il 18 marzo 2024 alle ore 09:31