Questo centrodestra è vincente nel sentire degli italiani, ma è immaturo nella qualità della sua classe dirigente. Lo prova il naufragio elettorale di ieri l’altro. Giorgia Meloni, che è una fuoriclasse nel mestiere di capo del Governo, ha sbagliato tutto riguardo all’approccio alle Regionali in Sardegna. Ha toppato sulla scelta del candidato del centrodestra, nel metodo e nel merito.
Lo scivolone probabilmente è stato propiziato da un errore in premessa che tradisce l’esistenza di un peccato originale dal quale la coalizione non riesce ad affrancarsi. Il centrodestra a guida Meloni si affida un po’ troppo ai poteri taumaturgici del verticismo centralizzato a Roma. L’idea di patria, coltivata dalla destra con devozione quasi sacrale, punta a riassumere nell’unica identità italiana tutto ciò che vive e prospera nel nostro Paese. Invece, l’Italia è la terra delle piccole patrie e dei campanili, dove la gente è un’altra cosa prima di essere italiana. Per intenderci: un sardo è un sardo e poi è un italiano. Vale per la specificità isolana ma il concetto è applicabile a tutti i territori di cui si compone lo Stato italiano. Lo avete sentito Luca Zaia quando parla dei suoi concittadini? Non li indica come italiani del Veneto ma semplicemente come veneti. Ricorda tanto le maestre elementari di una volta che insegnavano agli scolari i popoli italici del periodo preromano: proto veneti, liguri, piceni, osci, volsci, equi, etruschi, latini, ausoni, siculi, sabini, sanniti, lucani.
La mancata valutazione di questo connotato antropologico è alla base dell’errore di metodo compiuto dalla Meloni nella scelta del candidato alle regionali sarde. Negare a Christian Solinas, governatore uscente, del Partito Sardo d’Azione, la possibilità di correre per il secondo mandato e sostituirlo con un fedelissimo mediante un’operazione di marca politicista, calata dall’alto, ha indispettito l’elettorato sardo, refrattario a farsi mettere in piedi in testa da chicchessia. Ci spingiamo a dire che seppure Meloni avesse scelto in alternativa a Solinas il candidato perfetto, l’uomo o la donna migliori al mondo, non sarebbe bastato per far cambiare idea ai sardi, che della reazione al diktat ne hanno fatto questione di principio.
Epperò, stando al merito, il premier neanche ha puntato sulla candidatura di indiscusso valore, preferendo privilegiare il dato di fedeltà piuttosto che guardare al curriculum politico-amministrativo del prescelto. Già, perché se l’avesse fatto si sarebbe accorta che quella di Paolo Truzzu non sarebbe stata la migliore candidatura possibile. Da sindaco di Cagliari non ha brillato e i suoi concittadini non sono stati per nulla soddisfatti del suo operato. La prova dell’inadeguatezza della persona al nuovo ruolo sta nei numeri impietosi ottenuti ieri l’altro nella città di cui è attualmente sindaco, sebbene dimissionario, che avrebbe dovuto sostenerlo. A Cagliari, Truzzo ha raccolto meno voti della somma dei partiti (39%) che lo hanno sostenuto. Il fatto vorrà pur significare qualcosa? In più, nelle 173 sezioni scrutinate, Truzzu ha ottenuto 24.792 voti (34,6%) contro i 37.992 consensi (53%), assegnati alla sfidante Alessandra Todde. Un divario enorme che racconta di una sonora bocciatura – circa 13mila voti di scarto – al sindaco prima ancora che al candidato governatore.
I dirigenti di Fratelli d’Italia provano ad attribuire la sconfitta al “tradimento” della Lega che avrebbe complottato con il silurato Solinas per segare le gambe al candidato meloniano attraverso il ricorso al voto disgiunto. Ipotesi azzardata e poco credibile. I numeri della Lega sono stati talmente bassi da non suffragare alcuna ipotesi complottistica. E poi, pur ammettendo che gli azionisti sardi abbiano voluto vendicarsi dello sgarbo fatto al loro leader Solinas, non è ragione sufficiente per spiegare la débâcle complessiva del centrodestra che riesce a tenere soltanto nelle zone del nord dell’isola dove il ricordo di Silvio Berlusconi è ancora vivo. Non a caso è nell’area turistica di Olbia-Tempio Pausania che le cose sono andate meglio per il centrodestra. Lì Forza Italia ha raccolto il 13,1 per cento dei consensi, la Lega ha ottenuto il 6,2 per cento e Fratelli d’Italia il 15,7 per cento. Numeri molto lontani dai risultati complessivi della regione dove, a scrutinio non ancora completato, Forza Italia si attesta al 6,3 per cento, la Lega crolla al 3,7 per cento mentre Fratelli d’Italia conquista il 13,6 per cento.
Allargando l’orizzonte, se Sparta piange consiglieremmo ad Atene di evitare di eccedere nell’esultanza perché, in primo luogo, la coalizione di centrodestra ha comunque ottenuto più voti rispetto al centrosinistra; in secondo luogo, perché se è vero che la Todde ha vinto e non importa se la vittoria sia arrivata al fotofinish, non hanno vinto i due partiti che l’hanno sostenuta: i Cinque Stelle e il Partito Democratico. In realtà, il loro contributo alla causa è stato molto parziale. Rispetto al 45,4 per cento conseguito dalla candidata di sinistra, la lista Cinque Stelle ha ottenuto il 7,8 per cento (9,74% alle Regionali del 2019) e il Pd il 13,8 per cento. Ciò vuol dire che la differenza l’ha fatta la stessa Todde e l’hanno fatta le liste locali a lei collegate, espressioni dirette del territorio. La pentastellata ha vinto perché ha saputo ascoltare e interpretare meglio del concorrente di centrodestra il sentimento popolare. Tuttavia, per i sardi, che hanno voltato le spalle alla destra, non saranno rose e fiori. Il giudizio severo con cui hanno affondato Truzzu gli si ritorcerà contro dovendo d’ora in avanti fare i conti con la linea politica movimentista e radicale uscita vincente dalle urne. Ne vedremo delle belle quando su una regione a vocazione turistica calerà la scure dell’oscurantismo ecologista e straccione di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, anch’essi aggregati da forza di complemento (4,7%) alle truppe dell’asse Giuseppe Conte-Elly Schlein.
La “strana coppia” della sinistra progressista oggi festeggia ed è tentata da futuri progetti comuni. Ma non si illudano, la vicenda sarda è un unicum nel suo genere. E lo rimarrà a patto che il centrodestra tragga il giusto insegnamento da quanto è accaduto. Devono farlo tutti i suoi leader. Ma è di Giorgia Meloni il compito della prima e più significativa autocritica. Pensare di esercitare sulla coalizione il potere proprio di un monarca assoluto è un’ingenuità che denota il mancato superamento, da parte di Fratelli d’Italia e della sua leader, della fase dell’infantilismo politico. Pensare di mettere in campo una classe dirigente d’eccellenza selezionata in base al “manuale Cencelli” è un errore marchiano. Berlusconi una simile sciocchezza non l’ha commessa. Al contrario, la cifra della sua leadership sul centrodestra è stata la generosità nel concedere spazio agli alleati con maggiore esperienza di governo dei territori. La Meloni dovrebbe fare tesoro di quell’insegnamento in vista delle future scadenze elettorali. Se non cambiasse rotta adesso il test sardo potrebbe non rimanere un caso isolato di harakiri del centrodestra.
Aggiornato il 29 febbraio 2024 alle ore 09:48