Nessuno oggi può dire quale sarà l’alta formazione tra dieci o vent’anni. Il mondo cambia velocemente e non soltanto abbiamo ormai una nuova generazione di “nativi digitali”, ma c’è poi una crescente necessità di istruzione, aggiornamento e cultura anche quando si è trentenni, quarantenni e via dicendo. Sotto questo profilo l’Italia risulta meglio attrezzata di tanti altri Paesi europei, dato che abbiamo università telematiche importanti e consolidate, da cui esce ormai più del 10 per cento dei nuovi laureati. È un mondo di imprese dinamiche, che offrono la possibilità di studiare a chi non ha i mezzi per spostarsi in una città universitaria e anche a chi lavora. Se hanno successo, è perché rispondono a esigenze reali. Se paragoniamo la realtà dello Stivale a quella francese oppure tedesca, noi italiani siamo meglio proiettati verso il futuro: dovremmo essere orgogliosi di tutto questo.
Purtroppo, la politica avversa la parte più innovativa del mondo universitario e la ragione è evidente. Una parte considerevole della politica risponde in toto al vecchio universo delle baronie accademiche, che avversano ogni novità in questo campo: per ragioni ideologiche e per interesse. Sul piano culturale, il mondo universitario italiano è monolitico: come s’è visto durante la pandemia, prima, e di fronte alle nuove “verità rivelate” in tema di global warming, adesso. In tutta l’accademia abbiamo un’evidente egemonia del Partito democratico e del progressismo di Palazzo. Di conseguenza, si teme un’università più plurale e con forti presenze di soggetti privati: da Pegaso a E-Campus. I conformisti delle baronie universitarie si oppongono con tutte le loro forze a quanti non sono allineati al politicamente corretto.
Gli stessi interessi pesano. La Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane), che è ormai la lobby delle università statali e in presenza, contrasta quanto più sia possibile gli atenei on-line, ispirando nuove norme sempre più penalizzanti nei riguardi dei soggetti privati. La folle pretesa di avere nelle telematiche lo stesso rapporto tra studenti e docenti obbligherebbe queste le imprese private ad avere dipartimenti con molte centinaia di docenti (solitamente sono una cinquantina), senza alcuna possibilità di utilizzarli. Quali corsi dovrebbero tenere tutti questi docenti? Come si fa, soprattutto, a non vedere che si tratta di due modi ben differenti di insegnare e studiare? E quale giustizia ci può essere quando si trattano allo stesso modo due realtà tanto differenti? E infine: poiché vivono di rette (e non di soldi pubblici, come le università in presenza), come potrebbero sopravvivere le università telematiche, se dovessero moltiplicare i docenti assunti?
L’obiettivo ultimo dei nemici delle telematiche – nemmeno tanto mascherato – è quello di distruggere un settore in crescita: il che comporterebbe, secondo la legislazione, che tutti i docenti delle telematiche finirebbero a carico del sistema universitario pubblico, e quindi dei contribuenti. Pure la responsabile del ministero dell’Università (Anna Maria Bernini, che è professoressa associata e quindi non è ancora all’apice della carriera accademica) sembra sempre molto allineata alle posizioni dei “soviet” universitari. Se questi sono i liberali, però, tanto valeva tenersi i comunisti. L’università ha bisogno di più libertà, più concorrenza, più innovazione, più apertura, più voci indipendenti e differenti. Purtroppo, una parte significativa della politica italiana, anche nel centrodestra, sembra volere tutt’altro.
(*) Free Academy
Aggiornato il 06 febbraio 2024 alle ore 09:10