Vi sono giorni nei quali essere italiani genera un disperante senso di frustrazione, per le troppe cose che non vanno e per quelle che potrebbero essere fatte meglio; per il modo con cui altri Stati, che sulla carta dovrebbero essere amici, provano a metterci in piedi in testa; per i nostri faticosi tentativi di restare a galla nonostante la tempesta. Poi, però, vi sono giorni nei quali torna il sereno. Ieri l’altro, è stato uno di quelli. E non perché il giovane altoatesino Jannik Sinner abbia vinto un importante torneo tennistico. Nossignore. La settimana è iniziata alla grande perché la conferenza Italia-Africa, fortemente voluta dal Governo Meloni, è stata un successo. A nostra memoria, non si ricorda un evento di politica internazionale, organizzato in Italia, di tale rilevanza e che abbia avuto Roma come fulcro dell’iniziativa (da non confondere con le conferenze interministeriali Italia-Africa tenute negli anni scorsi a Roma a cura della Farnesina, che erano altra cosa). È stato un pallino del premier fin dal suo insediamento a Palazzo Chigi fare dell’Africa una priorità strategica. Lo strumento individuato per favorire lo sviluppo economico e la qualità della vita individuale e collettiva negli Stati africani è il Piano Mattei, che poggia su cinque pilastri d’intervento proattivo dell’Italia: Istruzione e formazione, Agricoltura, Salute, Energia, Acqua.
L’approccio è quello giusto, non è predatorio o neocolonialista ma propone un partenariato “win-win” del tipo: se lavoriamo assieme vinciamo tutti. Di meglio non si poteva pensare. La Meloni propone una visione di lungo respiro, da statista, rispetto alla geopolitica nella macroarea Mediterraneo-Africa-Medio Oriente, che mira a contrastare sul terreno dell’offerta di servizi e investimenti, e non esclusivamente sulla domanda di materie prime – com’è accaduto in passato – la concorrenza dei temibili player russo e cinese, i quali in Africa stanno espandendo a dismisura la loro influenza finanziaria e strategica. A riprova che il Piano susciti grande interesse nei potenziali destinatari, all’appuntamento sono intervenute le delegazioni delle nazioni più rilevanti per il futuro del continente africano. Dall’Algeria, all’Egitto, passando per la Tunisia, il Mozambico, il Congo, il Kenya, la Somalia, l’Eritrea, la Repubblica Centrafricana, il Senegal, la Costa d’Avorio, la lista è lunga e tocca tutto il perimetro dell’Africa fino al suo cuore profondo. In un mondo (occidentale) che ha inflazionato l’uso della parola “ponte”, l’idea forte del Piano Mattei è di aspirare a essere l’anello di congiunzione tra il Nord e il Sud del pianeta. Ciò che segna il nostro tempo storico è dato dalla necessità di attualizzare le catene del valore a un contesto sottratto agli stereotipi del passato e nel quale la realtà restituisce la fotografia di un Nord meno ricco e di un Sud meno povero, semmai impoverito dalle scorie del predominio “bianco” dei secoli trascorsi. Quella stessa realtà che impone al paternalismo occidentale di smetterla con le politiche degli aiuti e di cedere il passo a forme sinergiche di cooperazione.
L’Italia del centrodestra ha colto per tempo la nuova direzione del vento e prova a regolare le vele sulla giusta rotta. Dovremmo esserne orgogliosi. Lo siamo, ma non tutti. La solita sinistra disfattista prova a gettare fango anche su questa iniziativa che invece, per il suo impatto pluridecennale, richiederebbe un Paese schierato dalla stessa parte. Per i compagni – gli stessi che ci hanno regalato un decennio di fuga dell’Italia da tutti gli scenari internazionali, Libia compresa – è fuffa, chiacchiera senza costrutto. Nessuna meraviglia, i “sinistri” sono fatti così: se un’idea non parte da loro, è sbagliata in via assiomatica. Quando capiremo che costoro non sono eufemisticamente “diversamente italiani”, ma nemici della Patria in senso letterale, non sarà mai troppo tardi. D’altro canto, lo spiega il vocabolario (Treccani): dicesi disfattista “l’opera di chi con voci allarmistiche o denigratorie e sim. cerca di ostacolare l’azione del governo e delle autorità, la riuscita o il buon andamento di un’impresa, o comunque tenta di scalzare negli altri la fiducia in qualche cosa”. Un tempo li si metteva al muro, trattandoli da traditori; oggi, nella stagione delle cure omeopatiche, incruente, della democrazia, li si lascia abbaiare alla luna.
Tuttavia, non vogliamo sostenere che siano solo rose e fiori, di problemi e dubbi ve ne sono. Il primo riguarda il valore della fiche d’ingresso messa sul tavolo dall’Italia per cominciare la partita: 5,5 miliardi di euro. Cifra poco più che simbolica, d’accordo. Ma si tratta di un inizio, un gesto che presuppone l’intenzione di farne seguire altri. E non solo dall’Italia. La presenza alla conferenza dei vertici Ue, dell’African Development Bank, dell’Unione africana, dell’European Bank for Reconstruction and Development, della Banca europea per gli investimenti (Bei), è un chiaro segnale di coinvolgimento nel progetto di partner finanziari ben più dotati della piccola Italia. Il secondo, gigantesco, attiene all’affidabilità degli interlocutori africani. Chi ci assicura che i personaggi visti ieri l’altro a Roma siano sinceramente disposti a spendere per le loro popolazioni i soldi ricevuti e non a farne bottino personale? L’esperienza passata non aiuta. Le risorse investite dall’Occidente dagli anni Sessanta del Novecento – che hanno superato di venti volte l’ammontare del Piano Marshall statunitense, concepito per rimettere in piedi l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale (F. Rampini in La Speranza africana, ed. Mondadori, 2023) – sono finite per alimentare sanguinose guerre intestine e per gonfiare le tasche di satrapie di ogni genere. Chi garantisce che d’ora in avanti sarà diverso? Il terrorismo, il terzo problema. Le infiltrazioni, soprattutto nei Paesi del Sahel e del Corno d’Africa, dell’islamismo radicale e violento è una costante dell’ultimo periodo. La volontà d’investire dovrà fare i conti con la loro presenza sul territorio. E poi – quarto problema – ci sono i competitor che non vogliono gli europei tra i piedi a guastargli la festa africana. Parliamo di Russia e Cina. Nei giorni della preparazione della conferenza di Roma, la giunta golpista al potere in Niger ha firmato un accordo di cooperazione militare con la Federazione Russa. Adesso Mosca controlla totalmente il corridoio che dal centro e dall’ovest dell’Africa arriva al Mediterraneo attraverso la sponda cirenaica. Ciò significa che il Cremlino, se lo volesse, potrebbe scaricare sul Sud Europa un’onda migratoria di inedita portata. Tuttavia, pur tra mille difficoltà il primo passo è stato ugualmente compiuto. E ciò accresce il peso geopolitico dell’Italia nell’area. Non è poca cosa, checché ne dicano i compagni.
Aggiornato il 01 febbraio 2024 alle ore 09:33