Venerdì scorso abbiamo assistito ad una puntata estremamente istruttiva di Quarto Grado, in onda su Rete 4. Ovviamente ampio spazio è stato dedicato al caso giudiziario del giorno: la vicenda assai controversa della probabile revisione del processo che ha mandato all’ergastolo Olindo Romano e sua moglie Rosa Bazzi. Ospite molto atteso del programma, è intervenuto l’artefice principale di una iniziativa di revisione che potrebbe far risalire la sempre più declinante fiducia dei cittadini sul modo in cui viene amministrata la giustizia in Italia, il sostituto procuratore generale di Milano, Cuno Tarfusser. Quest’ultimo in un serrato faccia a faccia con Gianluigi Nuzzi – conduttore di un programma troppo spesso colpevolista a prescindere – ha espresso in modo chiarissimo un concetto che spesso non viene compreso da buona parte dei giornalisti che si occupano di cronaca nera. Molto significativa, in tal senso, una sua breve ma incisiva affermazione in merito al caso in oggetto: “Io non sono né colpevolista e né innocentista, io sono un magistrato: l’ho fatto per quasi 40 anni e ho sempre cercato di accertare la verità”. Ciò, unito a una particolareggiata descrizione che lo stesso ha esposto in merito alle tante falle dell’impianto accusatorio (su tutte l’assenza di una regolare catena di conservazione della famosa traccia di sangue, che nell’unica foto risulta invisibile, che, a suo dire, nei tribunali americani per questo motivo nessun giudice avrebbe ammesso), definisce la domanda che chiunque sia chiamato a valutare una condanna dovrebbe sempre porsi: le prove che mi vengono sottoposte sono sufficienti a dissipare qualunque ragionevole dubbio?
Esattamente il contrario di quello che spesso accade soprattutto nel mondo dell’informazione, la quale esercita un grande peso sull’opinione pubblica, in cui si indugia in ciò che viene definito come l’inversione della prova; ovvero la pretesa che sia l’imputato di turno a fornire la prova della sua innocenza. Si tratta di una sorta di ordalia moderna che ben poco ha in comune con un avanzato Stato di diritto. Inoltre, proprio in nome di quel garantismo che dovrebbe rappresentare per tutti un valore non negoziabile, ritengo doveroso analizzare lo stupefacente intervento di Caterina Collovati, da sempre schierata nel fronte colpevolista. Questo il passaggio saliente dell’intervento espresso dalla giornalista: “Non ho nulla contro di lui”, riferendosi a Tarfusser. “Non mi permetto di obiettare quello che ha fatto: ma non mi ha convinto, assolutamente. Egli parla di spintanee confessioni, usando proprio questo termine, questo gioco di parole. Ma io l’unica spinta che vedo è una spinta mediatica, in questo probabile secondo processo. Parliamoci chiaro, ciò tende a screditare la magistratura. E, come cittadina che crede nella magistratura e nella certezza della pena, questo è un modo per dire, non che l’indagine sia stata fatta male, ma per dire che esiste una magistratura deviata”. Ecco, come vedete, dopo il dogma sanitario che ha imperversato per l’intera stagione del Covid-19, in cui persino i medici, gli studiosi che esprimevano critiche venivano tacciati di eresia, esiste pure il dogma giudiziario, nel quale anche un magistrato integerrimo come Tarfusser rischia di essere denigrato al pari di Luc Montagnier e Giulio Tarro, prestigiosi virologi messi alla berlina perché non allineati con la narrazione del terrore.
Ora, dispiace che una persona istruita come la Collovati – alla quale mi permetto sommessamente di consigliare un ulteriore approfondimento dei principi garantisti del nostro Stato di diritto – non comprenda la necessità di diffondere lo spirito critico in ogni settore della società, compreso quello in cui opera la magistratura, evitando in primis di trasformare una ragionevole fiducia nei riguardi dell’ordine giudiziario in un vero e proprio atto di fede. Atto di fede il quale, come molti ricorderanno, nel periodo oscuro di Mani pulite creò nella società una tale isteria colpevolista per cui era sufficiente un avviso di garanzia per essere giudicati colpevoli di fronte alla stessa opinione pubblica. D’altro canto, se dovessimo spingere ai medesimi livelli estremi la fiducia dogmatica nei confronti soprattutto della magistratura inquirente, tanto varrebbe evitare le costose lungaggini dei tre gradi di giudizio, concludendo ogni processo in poche tornate dibattimentali. Un modello estremamente efficiente di giustizia che, come è noto, fu lungamente sperimentato nei Paesi del paradiso socialista, nei quali bastava una semplice accusa per finire in un gulag o di fronte al plotone d’esecuzione. Cari e pazienti lettori, debbo confessare che, malgrado tutto, preferisco la nostre lungaggini garantiste alla sinistra efficienza di qualunque forma di giustizia sommaria.
Aggiornato il 18 gennaio 2024 alle ore 09:24