Ha del tutto ragione Massimo Cacciari quando osserva che il patriarcato, in Italia e in genere in Occidente, non esiste più da almeno due secoli. Sulla stessa linea si è anche espresso lo psicologo televisivo, Paolo Crepet. Da cosa si vede? Da tutto, a meno che uno abbia due fette di salame sugli occhi. Provate a frequentare un’aula di giustizia di un tribunale italiano. Uno qualunque, preferibilmente un grande ufficio, come quello di Milano o di Roma. Vedrete che i collegi giudicanti o sono composti soltanto da donne o, se ci sono degli uomini, vi si trova pure almeno una donna. Insomma, solo donne oppure uomini e donne: mai solo uomini. Ciò vuol dire che, ormai, il sessanta o sessantacinque per cento dei giudici italiani è composto da donne: gli uomini ci sono ancora, ma quasi a esaurimento. Date poi un’occhiata agli albi professionali delle città più varie. Medici, avvocati, commercialisti, farmacisti, consulenti fiscali, architetti. Oltre il cinquanta per cento – e in costante crescita – è composto da donne. E le banche? Gestite quasi del tutto da donne, sia dietro gli sportelli che nei ruoli dirigenziali. La stessa cosa per i Ministeri, gli uffici postali, i patronati, gli uffici pubblici comunali e regionali.
Non parliamo poi delle scuole. Pensate: siccome si è visto che oltre il settantacinque per cento dei ruoli di dirigente scolastico in oltre 16 regioni italiane è occupato da donne, il Ministero competente sta per bandire un nuovo concorso, ma tutelando gli uomini con le “quote azzurre”, allo scopo di scongiurare la loro prossima estinzione in quel ruolo tanto importante per la scuola italiana. Chi scrive, nella sua ormai non breve esperienza in Università, ha fatto migliaia e migliaia di esami: ebbene, mai una ragazza si è limitata – come non raramente capitava invece ai colleghi – alla classica “scena muta”; anzi, sempre le ragazze si sono mostrate mediamente più preparate dei colleghi maschi e, soprattutto, molto più desiderose di ben figurare, dotate di amor proprio e consapevoli dell’importanza di uno studio ben fatto e serio. I maschi, al confronto, sono mediamente un gradino più sotto, con tutte le conseguenze del caso.
Ormai le donne sono da tempo dominanti nel mondo del lavoro e soprattutto delle professioni intellettuali, lasciando agli uomini mansioni puramente esecutive o lavori di grande usura personale (altiforni, carico e scarico merci, lavoro manuale dei campi). Insomma, le ragazze studiano con impegno e serietà: i ragazzi molto meno. Ciò, probabilmente, perché mentre i giovani maschi si fanno “distrarre” dalle ragazze, non succede il contrario: per quanto sensibile, mai – e dico mai – una ragazza ometterebbe di studiare come si deve, per correre dietro ad un ragazzo. Si dirà che tre o quattro decenni fa non era così. Vero, ma allora dobbiamo metter mano a considerazioni di diverso tipo. Dobbiamo, cioè, verificare cosa accadeva diversi decenni fa: succedeva che il modello sociale allora dominante prevedesse una tendenziale ripartizione di ruoli, secondo la quale gli uomini dominavano la sfera pubblica e le donne quella privata. Questo modello – oggi vilipeso dal prevalente femminismo ideologico – è stato accuratamente studiato da sociologi e antropologi. In particolare, Susan Carol Rogers – non a caso una donna, valente antropologa statunitense – ha osservato come, soprattutto in ambito rurale, se l’autorità formale appartiene al marito, il potere sostanziale rimane in mano alla moglie, la quale gestisce in modo pressoché esclusivo la vita familiare e in specie l’educazione dei figli.
Nelle società industrializzate le coordinate, certamente, mutano alquanto, ma rimangono comunque degli interrogativi che reclamano una risposta: dov’è scritto che la ripartizione di competenze – rigida oppure obsoleta quanto si vuole – sia ipso facto sinonimo di sopraffazione? Che la responsabilità pubblica è solo onori e niente oneri, e quella privata nient’altro che una umiliante degradazione? Che la dignità della persona dipenda da poltrona e grado, cioè dal potere che si detiene? O che il potere esercitabile ed esercitato sia solo quello istituzionale? Che la vita domestica non concorra anch’essa all’edificazione del pubblico? O che dell’assegnazione dei ruoli non abbiano sofferto anche gli uomini, cui, ad esempio, spettava l’obbligo della guerra? O che il divieto d’ingerenza nelle mansioni dell’altro sesso non fosse reciproco (come illustra la Rogers)?
Si consideri anche in che modo un grande studioso delle civiltà antiche, giurista e antropologo – Johann Bachofen – abbia dimostrato come le varie epoche storiche dell’antichità siano state costituite da una alternanza di matriarcato (le cosiddette società “matrilineari”) e patriarcato. E come il primo non fosse per nulla immune da forme di compiuta violenza. Cosa accade invece oggi? Probabilmente, quello che si può definire un processo sociale di progressiva “devirilizzazione” del maschio il quale, per rimanere politicamente corretto e perciò socialmente accettato, deve reprimere le proprie caratteristiche naturali, assumendone altre di carattere quasi femminile. Ecco, allora, la pubblicità che mostra come il bambino con la camicetta macchiata di gelato corra da papà e non da mamma per essere rassicurato sulla capacità sbiancante del detersivo di turno; che a cucinare sia il marito e non la moglie; che a cantare la ninna nanna sia il papà e non la mamma. E via di questo passo.
Questo sarebbe patriarcato? Ve lo chiede uno che ai propri figli – per amore e non per correttezza ideologica – cambiava i pannolini: e sapeva bene come farlo. Ecco, dove risiede probabilmente l’origine della violenza odierna dall’uomo esercitata sulla donna, fino all’omicidio. Al contrario di quanto si crede, non in un inesistente patriarcato o nella eccessiva mascolinità, ma in una virilità debole e continuamente repressa. Tale che il maschio, ormai fragile, insicuro, socialmente censurato per il solo fatto di esserlo, diviene senza neppure saperlo “dipendente” dall’universo psicologico e affettivo della donna, pur credendo di amarla: ma la dipendenza non è amore. Per questo motivo, la dinamica della violenza appare oggi tragica ma ripetitiva: lei lo vuole lasciare dopo anni di relazione, lui non accetta la fine (perché si sente perduto) e la aggredisce, a volte fino ad ucciderla. Se i maschi divenissero alquanto più virili, forse ciò non accadrebbe e le donne sarebbero più al sicuro. E anche più donne.
Aggiornato il 22 dicembre 2023 alle ore 09:08