Bombardieri e Landini: il gatto e la volpe

La prova di forza tra i leader sindacali di Cgil e Uil e il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, Matteo Salvini, sull’indizione dello sciopero generale, si è conclusa a favore di quest’ultimo.

Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri, nei giorni scorsi, hanno puntato sullo sciopero generale nel chiaro intento di rendere reale l’illusione ottica di un’opposizione dei lavoratori al Governo Meloni. Nelle intenzioni dei promotori, agendo sui gangli nevralgici della mobilità intermodale, lo sciopero avrebbe dovuto avere un alto impatto sull’opinione pubblica. Con la proclamazione di otto ore di astensione dal lavoro nel comparto del trasporto pubblico di fatto si sarebbe fermata l’Italia intera.

D’altro canto, se treni, traghetti e autobus restano fermi, 20 milioni di cittadini – la stima è del Ministero dei Trasporti – debbono rinunciare a svolgere le loro attività ordinarie. Quale sarebbe stata la rappresentazione della protesta comunicata dai media al mondo? Un popolo che manifesta contro il suo Governo. Un colpo magistrale dei capi dei sindacati di sinistra per correre in soccorso di un’opposizione politica la quale, con le proprie sole argomentazioni, non riesce a scalfire la fiducia della maggioranza degli italiani in Giorgia Meloni. Per schivare il siluro, Salvini è entrato a gamba tesa nella querelle denunciando l’insussistenza dei requisiti idonei a classificare “generale” lo sciopero proclamato. La decisione di ricondurre la protesta programmata a sciopero di alcune categorie di lavoratori gli ha consentito di dichiarare legittime, in quanto compatibili con la tutela dei servizi pubblici essenziali da garantire, solo quattro ore di astensione dal lavoro nel comparto dei trasporti in luogo delle otto indette da Cgil e Uil. Salvini ha mostrato il pugno duro paventando la possibilità, nel caso le organizzazioni sindacali non si fossero attenute alla sua direttiva, di procedere alla precettazione dei lavoratori. A sostegno della classificazione categoriale – e non generale – dello sciopero proclamato è intervenuta una conforme pronuncia della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, impegnata a garantire l’equo contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti costituzionali della persona, come previsto dall’articolo 1, comma 1 della Legge 2 giugno 1990, n. 146, istitutiva dell’Autorità di garanzia.

Landini e Bombardieri hanno incassato il colpo, cercando comunque di trarne un vantaggio politico. Entrambi si sono appellati alla Costituzione che, a loro avviso, il ministro e il garante – complici in un unico disegno liberticida – avrebbero violato. Era da mettere nel conto che i capi sindacali, battuti al loro stesso gioco, la buttassero in caciara vestendo i frusti panni dei martiri per la libertà. Domandiamoci, allora, se sia stata opportuna la linea dura intrapresa da Salvini? In punto di diritto, sì. Tuttavia, sorge il dubbio che il ministro sia caduto in una trappola. Non è che i capi sindacali volessero consapevolmente giungere al risultato a cui sono giunti? Consci che la protesta non avrebbe avuto il medesimo successo delle grandi mobilitazioni dei tempi d’oro della “Triplice sindacale”, hanno proclamato un anomalo “sciopero generale” perché qualcuno – nella fattispecie, il ministro – intervenisse a bloccarlo. Landini e Bombardieri potranno raccontare che se non fossero stati fermati dall’azione “squadrista” di Salvini, l’Italia avrebbe notificato al Governo la cocente bocciatura delle sue politiche economiche. È per evitare di cadere nel tranello apparecchiato dai due capibastone in deficit di credibilità che, al posto di Salvini, avremmo agito diversamente. Nessuna minaccia di precettazione, ma un accorato appello agli italiani a disertare la protesta indetta per evidenti esigenze di riposizionamento strategico delle due sigle sindacali allo scopo di aiutare l’ambizioso Landini a lanciare la scalata alla leadership di un esangue centrosinistra. Per stare al linguaggio del poker, saremmo andati a vedere il bluff di Landini e Bombardieri. La prossima volta occorrerà riflettere attentamente sul da farsi. Non la si può dare vinta ai capi sindacali senza neppure provare a misurarne l’effettivo consenso goduto presso i lavoratori.

Salvini, in questa circostanza, non si è fidato del buonsenso degli italiani nel sottrarsi alle manipolazioni mistificatorie di coloro i quali, per basse finalità demagogiche, fanno un uso spregiudicato del malessere della gente comune. Al riguardo, c’è tornato in mente un episodio che segnò una storica sconfitta del sindacato. Una roba di oltre quarant’anni fa. Torino, 14 ottobre 1980. Da 35 giorni la Fiat è ferma. I picchetti sindacali impediscono ai lavoratori l’accesso in fabbrica. La trattativa con la controparte padronale è durissima. Il clima sociale è rovente quando, inopinatamente, una folla di 40mila quadri aziendali si mette a sfilare lungo le strade cittadine chiedendo d’interrompere la protesta e di tornare a lavorare. Una mazzata pazzesca per i vertici sindacali che si videro costretti a chiudere frettolosamente la trattativa con l’azienda, rinunciando alle rivendicazioni poste a giustificazione della prova di forza. Non vogliamo dire che ciò che spinse all’epoca i dipendenti della Fiat a voltare le spalle al sindacato possa ugualmente valere per i lavoratori di oggi. Tuttavia, fidarsi dell’intelligenza della gente è sempre la cosa giusta da fare. E anche la più coraggiosa.

Aggiornato il 20 novembre 2023 alle ore 10:05