Cosa ci insegna il caso di Indi Gregory

Andò da un santo un uomo che teneva tra le braccia un bimbo appena nato. Che cosa devo fare del bambino? domandò; È misero, malformato e non ha neanche abbastanza vita per morire. Uccidilo, disse il santo con voce terribile; uccidilo e poi tienilo per tre giorni e tre notti tra le braccia in modo che ti rimanga impresso nella memoria. Così non genererai più un figlio finché non sia giunto per te il tempo di generare. Dopo che ebbe sentito ciò, l’uomo se ne andò deluso; e molti biasimarono il santo perché gli aveva consigliato una crudeltà, avendo consigliato di uccidere il bambino. Ma non è più crudele lasciarlo in vita? disse il santo”: così ha scritto Friedrich Nietzsche in una delle pagine de La gaia scienza formalmente più intrise di compassione, ma sostanzialmente ben più algida e antigiuridica di quanto possa apparire ad una prima lettura. Le parole di Nietzsche richiamano alla mente proprio quanto accaduto negli anni con i numerosi casi che si sono succeduti come quello che per primo in Italia chi scrive ebbe a denunciare, cioè quello di Charlie Gard (2017), seguito poi da Alfie Evans (2018), da Isaiah Haastrup (2018), da Tafida Raqeed (2019), da Archie Battersbee (2022), fino a quello consumatosi in questi giorni della piccola Indi Gregory deceduta nella notte del 13 novembre dopo il distacco della ventilazione meccanica ordinata dalla Court of Appeal di Nottingham e dall’High Court britannica. Il caso di Indi Gregory si offre, dunque, come esempio ideale che insegna a comprendere differenti aspetti del tempo attuale.

In primo luogo, emerge l’aspetto epistemologico ed etico alla base della odierna visione medica. Sotto questo profilo, infatti, l’attuale medicina appare sofferente sotto il profilo epistemologico, poiché sembra aver adottato non già il modello della razionalità, ma quello dell’autorità, come si è ampiamente visto – sebbene nella ostinata cecità dei più maggiormente adusi a vedere il singolo punto piuttosto che a sforzarsi di comprendere l’intera retta – durante il tempo pandemico. Il fideismo assoluto, indiscutibile e totale che la medicina oggi pretende, infatti, è in radicale contrasto con lo statuto epistemologico di una scienza razionalmente fondata, in quanto alla luce della ragione, specialmente di quella ragione che si presume scientifica, non ci sono e non ci potranno mai essere dati, procedure, protocolli o realtà indiscutibili e non passibili del beneficio del dubbio. Sul versante etico, inoltre, la medicina appare ancor più sofferente poiché, irrigidita nella sua presunta scientificità, assorbita dai rilevanti interessi economici che spesso ne determinano gli orientamenti, gli obiettivi e le modalità operative, invasa da apriorismi ideologici che ne distorcono la visione su se stessa e sulla sua vocazione, pare che sempre più spesso perda di vista la tutela del senso dell’umano che la dovrebbe contraddistinguere. Una medicina esclusivamente tecnica, pur tecnicamente ineccepibile, ma umanamente ed eticamente discutibile, infatti, non è e non potrà mai essere una medicina autentica, e tanto più si dimostra la crisi che oggi la caratterizza, quanto più si devono ribadire queste evidenze le quali dovrebbero essere oramai da tempo saldamente acquisite. Una medicina che causa come risultato premeditato la morte di un essere umano, specialmente di un neonato malato che rappresenta l’essere umano nella sua massima condizione di fragilità, non può essere considerata realmente medicina, poiché distruggendo l’uomo distrugge l’umano che è in sé, e, quindi, distrugge se stessa e, in definitiva, la propria ragion d’essere.

In secondo luogo, emerge il profilo giuridico e in almeno due distinte accezioni. Nella prima, sotto il profilo del diritto all’autodeterminazione che è la traduzione giuridica del principio di libertà. Oggi il diritto di autodeterminazione è oggetto di micidiali forze ideologiche che, come potenti correnti di marea, ne comprimono o ne dilatano la natura e la portata: infatti, se nel periodo pandemico, per esempio, esso è stato radicalmente escluso in relazione ai ritrovati vaccinali, prima e dopo la pandemia esso è costantemente sempre più esteso fino a ricomprendere perfino il diritto di morire, come accaduto nel recente caso di Sibilla Barbieri. La vicenda della piccola Indi Gregory dimostra anche questo, cioè l’errata, per quanto diffusa, concezione del diritto di autodeterminazione, il quale sembra essere degno di tutela soltanto quando si preordina al favor mortis, e mai, invece, quando si orienta al favor vitae. L’autodeterminazione dei genitori di Indi, del resto, è stata negata proprio ad opera dei tribunali inglesi che in un unico contesto si sono risolti per negare non soltanto il diritto all’autodeterminazione dei genitori di Indi, ma anche il diritto alla cura, il diritto alla dignità e il diritto alla libertà della piccola costretta a morire nonostante le forze biologiche sue e le forze morali dei suoi genitori si battessero in ogni modo per la sopravvivenza.

Nel caso di Indi, però, il profilo giuridico emerge anche secondo una diversa accezione, cioè nel senso della doppiezza intrinseca del diritto il quale pur trovando la sua naturale vocazione nella tutela dei più deboli da difendere contro la violenza dei più forti, può diventare, più spesso di quanto si pensi, strumento di violenza nelle mani dei più forti per opprimere o reprimere i più deboli. Un diritto che tramite contratto, legge o sentenza pattuisce, concede o commina la morte di un debole, come nel caso di Indi, è un diritto che tradisce la propria stessa natura e che, dunque, si trasforma, si ribalta, nel suo opposto, cioè in anti-diritto, ovvero in uno strumento di violenza legalizzata, sicuramente legittima, ma non meno illecita. Un diritto piegato e deformato in tale maniera cessa di essere diritto, ovvero espressione della razionalità e della relazionalità umana, e diviene tremendo e insopportabile mezzo di ingiustizia. Il caso di Indi è emblematico, come del resto quelli che lo hanno preceduto e tutti quelli che sicuramente ancora lo seguiranno, in quanto dimostra, oltre ogni ragionevole dubbio, la pericolosa deriva che la concezione del diritto ha assunto negli ultimi tempi nella civiltà occidentale all’interno della quale il diritto è oramai identificato con il puro atto volitivo (del singolo, del legislatore, del gruppo, della collettività, del giudice, dell’equipe medica, del collegio di esperti convocato per l’emergenza di turno) del tutto disancorato da ogni razionalità e, quindi, da ogni umanità.

La morte di Indi, come quella di Charlie, di Alfie, di Archie e di tutti gli altri passati e futuri, rappresenta, insomma, la negazione più profonda, più disperata, più radicale del senso del diritto che non si arresta neanche dinnanzi al sangue innocente crudelmente versato, che non si ferma, cioè, neanche dinnanzi alla pietà. La pietà uccisa dalla legge o dalla sentenza, però, è già il sintomo che si sta operando ampiamente al di fuori della giustizia e, quindi, al di fuori del diritto, come, in conclusione, ricordano i laconici e funebri versi di Ovidio: “Vinta giace la pietà, e la vergine Astrea, ultima tra gli dei, abbandona la terra imbevuta di sangue”.

Aggiornato il 15 novembre 2023 alle ore 09:41