Prestiamo sempre scrupolosa attenzione alle cose che scrive Daniele Capezzone –neodirettore editoriale del quotidiano Libero – perché sono supportate da argomentazioni logiche e di buon senso. In particolare, l’editoriale dello scorso 28 ottobre dal titolo Sette nuove maschere della propaganda tivù, non poteva passare inosservato. Perché gustoso alla lettura, ma soprattutto stimolante per la nostra pruriginosa curiosità nel verificare se tra gli esemplari che incarnano la non nuovissima figura professionale dell’opinionista da salotto televisivo, ve ne fosse una che avremmo potuto – a nostro biasimevole disdoro – indossare. Ebbene, l’abbiamo trovata. Nella sinossi capezzoniana occupa la sesta posizione. È la maschera del “nostalgico di Putin”. Capezzone descrive lo stereotipo del reduce dal conflitto russo-ucraino. Costui, profittando di un momento di generale distrazione giustificata dai fatti di Israele, istilla nei luoghi della discussione ambigue “perle di saggezza” del tenore “adesso è necessaria la mediazione di Vladimir Putin” oppure “non ci è servito a nulla isolare Mosca”.
Facendo un impietoso esame di coscienza dobbiamo ammettere che un pensierino analogo – non al primo di quelli smascherati da Capezzone bensì al secondo – ci tormenti almeno dall’inizio del conflitto russo-ucraino. Isolare Mosca non è servito a nulla. Peggio, è tra le cause scatenanti della destabilizzazione di Israele per mano dei terroristi di Hamas. Avremmo accettato di buon grado che Daniele Capezzone ci avesse convinto di essere nel torto. Invece, è stata l’argomentazione che egli adduce alla stigmatizzazione dello stereotipo del “nostalgico di Putin” a persuaderci oltre ogni ragionevole dubbio che rompere con la Russia di Vladimir Putin sia stato il più colossale e scriteriato errore che l’Occidente potesse compiere a danno di sé stesso. Scrive Capezzone: “Naturalmente un soggetto del genere (il “nostalgico di Putin”, ndr) è perfettamente impermeabile alla realtà: il fatto che una delegazione di Hamas sia stata ricevuta a Mosca con tutti gli onori non gli mette il dubbio che Putin sia pure stavolta dalla parte dei cattivi. E invece no: i cattivi siamo sempre noi occidentali, si capisce”.
Non si tratta del complesso di colpa dei progressisti occidentali verso quel mondo che hanno spremuto e strapazzato fino a ieri l’altro, ci mancherebbe! Il punto di domanda ruota intorno all’identità di chi abbia spinto Putin tra le braccia dei cattivi. Si fa presto a confondere la causa con l’effetto. La foto che immortala il viceministro degli Esteri iraniano Ali Bagheri Kani, in cordiale compagnia del membro dell’ala politica di Hamas, Abu Marzouk, sotto lo sguardo compiaciuto di Mikhail Galuzin, viceministro degli Esteri russo, è la conseguenza – non la matrice – della miopia occidentale nel ritenere che i soli ucraini, per quanto perfettamente armati, avrebbero mandato in crisi la leadership putiniana. In geopolitica – stupisce che Capezzone lo dimentichi – le categorie concettuali del buono e del cattivo non hanno cittadinanza. Si può stare alternativamente con i buoni o con i cattivi in funzione della traiettoria degli interessi da perseguire. Forse che Winston Churchill accettò di stare con Iosif Stalin perché lo percepisse come il buono della storia? In geopolitica vale la regola aurea per la quale “il nemico del mio nemico è mio amico”. Putin è stato messo alle strette dal fronte occidentale.
Per non farsi isolare ha cominciato a intensificare i rapporti con i nemici strutturali dell’Occidente. Iran, Corea del Nord e, discendendo per li rami, ha prestato ascolto alla diffusa galassia dei movimenti dell’islamismo radicale i quali a loro volta, superata la separazione ideologico-religiosa che contrappone il sunnismo allo sciismo, hanno legittimato il regime di Teheran nel ruolo guida di stella polare nella lotta totale a Israele. Con Putin non è sempre stato così. Vi è stato un tempo, agli inizi di questo secolo, nel quale governanti europei e statunitensi lungimiranti avevano avviato con successo una significativa manovra di accostamento della Russia alla Nato e ai valori della civiltà occidentale alla quale la cultura russa, liberatasi delle scorie del comunismo, avrebbe dovuto appartenere di diritto. Fino alla vicenda della guerra all’Is – lo Stato islamico – l’equilibrio con Mosca è stato salvaguardato. Anche sul piano militare ha retto una sorta di cooperazione per difendere il mondo libero dai pericoli dell’integralismo islamico. Poi un brutto giorno è arrivato alla Casa Bianca Joe Biden e il mondo non è stato più quello di prima.
Quando tutto questo sarà finito e gli odierni protagonisti della scena internazionale saranno uno sbiadito ricordo, toccherà agli storici ricostruire la verità su ciò che accadde tra la Russia e l’Occidente, non dal 2022, anno d’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, ma dal 2014. Cioè da quando, a seguito della sigla il 5 settembre 2014 del Protocollo di Minsk sullo stato giuridico autonomo delle regioni ucraine filorusse del Donbass – aggredite militarmente da Kiev dopo la rivoluzione di Piazza Maidan – gli occidentali, facendo strame degli impegni presi con il Cremlino, hanno provato a sottrarre l’Ucraina alla sfera d’influenza economica e strategica della Madre Russia. Capezzone invita “i nostalgici di Putin” ad andare a Mosca, se proprio anelano a stare con il loro idolo. Ma non ve ne sarà bisogno. Di questo passo, se i mediocri governanti occidentali continueranno ad accumulare errori su errori, sarà Putin a venire da noi. E non sarà solo. Avrà con sé dei nuovi amici. Compresi quelli che ci vogliono male. E quelli che ci vogliono malissimo.
Aggiornato il 02 novembre 2023 alle ore 09:41