Israele & friends

Quando è il presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, a poche ore dalla strage all’ospedale al-Ahli di Gaza, ad additare Israele quale responsabile dell’attacco senza minimamente preoccuparsi di verificare la possibilità che vi fossero altri colpevoli del massacro, allora Dio protegga gli israeliani. Non dai nemici, che ci pensano benissimo da soli, ma dagli amici. Già, perché l’ostacolo opposto al legittimo diritto di Tel Aviv a reagire all’aggressione subita lo scorso 7 ottobre per mano dei tagliagole di Hamas sta nell’imbarazzante sequela di “, però” delle cancellerie europee e dei vertici dell’Unione europea sul dossier israelo-palestinese.

La preoccupazione che una reazione sproporzionata di Israele al colpo subito possa innescare un conflitto più vasto – prima regionale, poi globale – non può spingersi a distorcere la verità su quanto accaduto al popolo israeliano per mano di Hamas. La sortita sanguinaria dei terroristi è stata un capolavoro tattico. Il raid in territorio israeliano delle Brigate al-Qassam – braccio armato di Hamas – lo scorso 7 ottobre, ha mostrato al mondo la vulnerabilità di un apparato di difesa ritenuto fino a quel momento impenetrabile. Inoltre, il raid ha mandato in crisi il processo di avvicinamento dell’Arabia Saudita allo Stato ebraico. L’adesione di Riyad agli “Accordi di Abramo”, patrocinati dagli Stati Uniti, era a un passo. Dopo le stragi nei kibbutz, tutto è tornato in alto mare. Gli attacchi dei terroristi hanno risvegliate le piazze dei Paesi arabi. La rinfocolata protesta islamica ha ripescato dagli archivi della memoria vecchi slogan delle guerre arabo-israeliane del Novecento contro il sionismo, nemico ontologico. Per non dire del “miracolo” geopolitico che ha visto la saldatura – auguriamoci non definitiva – tra le strategie anti-americane di Russia e Cina e quelle dell’Iran degli Ayatollah.

L’offensiva disposta dai terroristi è lineare: col pretesto della crisi umanitaria che verrebbe scatenata dall’esercito israeliano se desse seguito alla volontà di entrare a Gaza con le proprie forze terrestri, i terroristi puntano a dividere il campo degli alleati di Tel Aviv. Lo stesso presidente Usa, Joe Biden, nella sua visita lampo in Israele pur ribadendo la totale vicinanza al Governo israeliano ha caldamente consigliato una reazione bellica che non danneggi più del necessario la popolazione civile di Gaza. Ma che ipocrisia è questa? In un teatro di guerra particolarissimo qual è la Striscia di Gaza porre un limite del genere equivale a ingiungere agli israeliani di stare fermi e di non difendersi. L’anomalia in quel buco d’inferno sta nella mancanza di una chiara discontinuità tra popolazione palestinese e miliziani di Hamas. Anche l’asserzione secondo cui i palestinesi sarebbero altra cosa rispetto ai miliziani di Hamas è ancora da dimostrare, visto che dal “popolo” non è venuta alcuna presa di distanza rispetto all’operato degli estremisti islamici. Per usare un sofisma molto abusato in occasione della vicenda russo-ucraina, se Israele smettesse di combattere non finirebbe la guerra ma finirebbe Israele stessa. Siamo alla lotta per la sopravvivenza, che inevitabilmente pone in secondo piano l’aspetto umanitario dei danni collaterali. Non bisogna dimenticare quale sia il presupposto che muove Hamas contro lo Stato ebraico. I miliziani del Jihad non combattono per affermare il principio dei “due popoli, due Stati”, ma lottano affinché di Stato ne resti uno solo: quello palestinese, come ordina la volontà del loro Dio, Allah. Per i feroci islamisti l’unico ebreo buono è l’ebreo morto. Data tale premessa, ogni compromesso sul fronte del conflitto armato rappresenterebbe una sconfitta irrimediabile per lo Stato ebraico.

Siamo giunti al cuore di una questione che si protrae da un secolo (dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917): il diritto o meno di Israele a vivere. Ecco perché la guerra in atto ha una dimensione esistenziale per entrambe le parti in conflitto. O scompare Hamas, o scompare Israele. Tertium non datur. Gli occidentali rendono un pessimo servizio all’unica democrazia d’impianto liberale presente in Medio Oriente e a sé stessi se persistono nell’intento di frenare la ferma determinazione degli israeliani ad andare fino in fondo nell’annientamento del mortale nemico. Si obietterà: così facendo vi sono ottime possibilità che il conflitto si allarghi e ne saremo, in modo o nell’altro, tutti coinvolti. Rispondiamo con una domanda: dopo aver ingaggiato una guerra senza quartiere contro il “nemico” russo, spingendolo tra le braccia del gigante cinese, davvero si ritiene impossibile l’esplosione su larga scala di una molteplicità di focolai di guerra locali?

Se Napoleone Bonaparte avesse conosciuto il latino avrebbe sentenziato: si vis pacem, para bellum. Avviso agli ambigui governanti occidentali: si vuole una pace che dia stabilità e sicurezza al mondo? Si sostenga lealmente l’alleato israeliano in guerra, senza piazzargli insidiose pietre d’inciampo sul suo cammino. Le anime belle della sinistra europea, per legare le mani al Governo di Tel Aviv, hanno tirato fuori una frase a effetto: “Si combattono i nemici della democrazia con le armi della democrazia”. Falso. La democrazia si difende con le armi che distruggono l’aggressore. Punto.

Aggiornato il 23 ottobre 2023 alle ore 09:47