Dalla Polonia, dove domenica si è votato per il rinnovo del Sejm (la Camera bassa del Parlamento), non giungono buone notizie per la destra europea. A scrutinio concluso il partito Diritto e giustizia (Pis) di Jarosław Aleksander Kaczyński e dell’attuale premier Mateusz Morawiecki – al Governo da otto anni – è primo con il 35,38 per cento dei voti ma non ha più la maggioranza per dare vita a un nuovo Esecutivo. Vince la coalizione dei partiti di opposizione guidati da Donald Tusk, stagionato pupillo del popolarismo pangermanico interessato a consociarsi con la sinistra piuttosto che a estenderne la incommensurabile distanza valoriale. Pis, in Europa, aderisce al partito dei Conservatori e dei riformisti europei (Ecr), capitanati da Giorgia Meloni. Tusk, invece, a casa propria è il capo di un raggruppamento che riunisce, insieme alla sua Coalizione civica (Ko) che ha ottenuto il 30,70 per cento, il partito Terza via (14,40 per cento) d’ispirazione centrista e la Lewica razem (Sinistra insieme) che è all’8,61 per cento. Fuori dai giochi per la composizione del Governo c’è la formazione di estrema destra, Confederazione, che ha raccolto il 7,16 per cento dei voti.
Cosa hanno in comune i vincitori, oltre a voler sconfiggere i conservatori in nome di un fideistico europeismo? Poco o niente. Dov’è il danno per le destre europee? Nell’essere ricadute nel congenito difetto di farsi la guerra tra loro con il bel risultato di favorire l’ascesa al potere della sinistra. Evidentemente, pensare di esportare il modello italiano del centrodestra in Europa, che mette insieme le correnti ideologiche del liberalismo, del conservatorismo e del nazionalismo, in vista di un progetto programmatico condiviso, è prematuro. Le destre non sono pronte a uscire dalla condizione di autoreferenzialità nella quale spesso e volentieri amano crogiolarsi. In Polonia come in Francia, dove il partito neogollista de Les Républicains non riesce a dialogare con il Rassemblement national di Marine Le Pen, con il catastrofico esito di dare regolarmente a una nazione tendenzialmente di destra un Presidente della Repubblica progressista. La destra moderata non riesce a scrollarsi di dosso la paura di essere malgiudicata dalla Storia – e dal politicamente corretto – qualora dovesse cedere all’apparentamento con le forze del “nostalgismo novecentesco”.
Sul fronte dei conservatori nazionalisti e dei sovranisti la fa da padrone il solipsismo dei suoi ideologhi e la sindrome da “uomini tra le rovine dell’Occidente” che affligge i suoi dirigenti politici ma che ricalca fedelmente lo stato d’animo, improntato al distacco verso gli affanni della cosa pubblica, di gran parte dei suoi elettori. Accade così che la destra moderata, egemonizzata in Europa dal Partito popolare europeo (Ppe), si presti a fare da “portatrice d’acqua” a una sinistra la quale, pur minoritaria nel gradimento dei cittadini, finisce puntualmente pe ritrovarsi tra le mani le redini del potere. Osservando la maggioranza “Ursula” (Ppe- Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, ovvero S&D e liberali di Renew Europe), si direbbe che le forze cristiano-democratiche siano affette da una forma grave di “sindrome di Stoccolma”. Trattasi di quel particolare stato patologico che spinge le vittime di sequestri o di abusi a nutrire sentimenti positivi verso i propri aguzzini. Come altro spiegare, se non con la scienza psichiatrica, il comportamento dei popolari europei i quali autolesionisticamente sostengono la visione di società imposta a Bruxelles dal progressismo oltranzista della sinistra continentale?
Donald Tusk e il premier polacco sconfitto, Morawiecki, odiandosi vicendevolmente, fanno il gioco del terzo incomodo – il campo progressista – che esulta perché sa che di questo passo potrà tenere a lungo in scacco il corpo lacerato della società civile europea. Ancor più, la sinistra è certa di aver sottratto il Ppe alle mire di Giorgia Meloni, la quale vorrebbe costruire in Europa, con i popolari, un’alternativa di Governo di centrodestra all’attuale formula dominante della sinistra-centro. Non è un caso se, in Italia, a gioire per il successo di Tusk sia stato Romano Prodi. Inutile nascondere che il voto polacco sia stato un altro duro colpo, dopo la battuta d’arresto in Spagna del partito conservatore di Vox, abbattutosi sulla strategia meloniana di esautorare i progressisti dalle stanze del potere a Bruxelles. La leader italiana in queste ore non starà facendo salti di gioia pensando alla possibilità di dover affrontare la prossima legislatura del Parlamento europeo relegata ai banchi dell’opposizione. Ma non è ancora detta l’ultima parola, visto che mancano ancora nove mesi al big bang del voto per le Europee. E nove mesi, di questi tempi, possono essere un’era geologica.
Aggiornato il 18 ottobre 2023 alle ore 16:28