Perché il popolo palestinese non potrà mai avere uno Stato

Il ravvivarsi dello scontro armato – d’un conflitto antico mai sopito – tra le forze jihadiste di Hamas e Israele, dopo la disumana ferocia che ha condotto alla mostruosa mattanza di civili israeliani dello scorso 7 ottobre con circa 1.200 civili israeliani brutalmente uccisi, a sua volta preludio del parallelo probabile massacro che le forze armate israeliane condurranno a breve nella Striscia di Gaza tramite le forze corazzate, oltre ogni ulteriore valutazione, auspicio e retorica dimostra lo iato assoluto tra la dimensione teorica, quella per cui tutti si augurano la creazione di uno Stato palestinese, e la dimensione fattuale per la quale, nonostante diversi decenni tale Stato non riesce a essere edificato. Tralasciando i dettagli storici ritenuti acquisiti, al di là delle valutazioni di ordine economico-strategico e superando le differenze ideologiche reputate accidentali sul punto si possono effettuare alcune riflessioni. Se lo Stato è la combinazione risultante di tre elementi – territorio, popolo e sovranità – sembrerebbe che lo Stato palestinese possa esistere, anzi, che di fatto esista già, poiché tra Gaza e Cisgiordania sono ben presenti e riconoscibili questi tre elementi anche se frammentati e discontinui. Tuttavia, ciò che in Occidente è sufficiente affinché uno Stato sorga non è altrettanto sufficiente in Medio-Oriente per motivi che travalicano il mero dato storico poiché ancorati alla prospettiva ontologica. In Occidente, infatti, al netto di tutti i difetti che ovviamente ci sono stati e ancora ci sono, lo Stato si è affermato come radicamento di un potere terreno che proveniva dal potere religioso, ma da esso si differenziava. Il potere statale, come tra i tanti ha insegnato Carl Schmitt, è stato nella cultura occidentale il riflesso del potere religioso, l’ombra prodotta da un bagliore, la scoperta di un sentiero che discendeva da una dimensione trascendente e che secolarizzandosi ha preso una propria direzione.

Certamente non è stato un processo lineare, né indolore, né istantaneo, ma nella sua inesorabile continuatività ha condotto alla creazione dello Stato occidentale come entità che oggi manca in praticamente tutti i Paesi del Medio-Oriente (a eccezione di Israele, ovviamente) e che soprattutto manca nel contesto palestinese. Per giungere, però, all’attuale formulazione statale occidentale sono stati necessari alcuni passaggi essenziali che sono tipici della cultura giuridica e politica occidentale e che, quindi, non si possono riscontrare nell’esperienza islamica a cui la tradizione del popolo palestinese per gran parte si riferisce. In primo luogo: la concezione dello Stato occidentale si fonda sull’esperienza e sull’elaborazione del sistema politico e giuridico del mondo classico in un cui il potere veniva incanalato nella figura del sovrano al fine di gestire la vita comunitaria. In questo senso sia i sistemi regali che democratici dell’antica Grecia hanno rappresentato uno spartiacque rispetto ad altri sistemi come quelli tribali tipici, per esempio, della Penisola arabica. Senza dubbio l’affermazione dello Stato occidentale non è stata, però, aproblematica, sia sotto l’affermazione delle spinte disgregatrici, per esempio, del pensiero anarchico che con il tempo si è affermato, sia in seguito alla sclerotizzazione dello Stato medesimo compiutasi con l’avvento dei regimi totalitari del XX secolo. Tuttavia, la concezione dello Stato è rimasta inalterata, nonostante le forze erosive esterne (l’antistatalismo) o quelle corrosive interne (l’iperstatalismo), giungendo pur tra numerosi difetti e carenze alla attuale formulazione.

In secondo luogo: la concezione dello Stato occidentale si fonda su una precisa strutturazione di ordine giuridico che ha imbrigliato le terribili energie del potere al fine di rendere ragione del suo esercizio. Ecco perché in Occidente si è affermato in modo inevitabile non soltanto lo Stato, in quanto tale considerato, ma lo Stato di diritto che come tale è quello che non soltanto regola e proceduralizza la gestione della cosa pubblica, ma che esige che il potere e le ragioni della politica si riconoscano come sottomessi alle ragioni del diritto. In questa direzione l’apporto dell’esperienza giuridica romanistica è stato imprescindibile, poiché ha chiarito – una volta e per tutte – che in tanto può darsi vita politica in quanto vi sono dei rapporti giuridici precedenti e sovrastanti, primo tra tutti quello tra governanti e governati. In terzo luogo: la concezione dello Stato occidentale si fonda sul principio di laicità, introdotto in modo inedito dall’avvento del Cristianesimo, secondo cui esiste una distinzione tra la sfera spirituale e quella temporale, poiché sebbene le due dimensioni non siano reciprocamente indifferenti – come erroneamente ritiene l’ideologia laicista che irrigidisce e sclerotizza il principio di laicità – non sono neanche confondibili o sovrapponibili l’una con l’altra. L’esortazione cristica e cristiana contenuta dal Vangelo di San Luca (20,25), cioè rendere a Cesare ciò ch’è di Cesare e a Dio ciò ch’è di Dio, costituisce, infatti, la cristallizzazione – per la prima volta nella storia e mai più dopo quel momento – della possibilità che una autentica forma di Stato potesse svilupparsi – sebbene tra molteplici difficoltà, controversie, titubanze ed errori tipici della concretizzazione storica – così come si è sviluppato, cioè in modo autonomo – ma non distante – dalla sfera religiosa, dalla Chiesa e dalla trascendenza. In questo senso l’Islam – a cui la popolazione palestinese è per gran parte aderente, almeno quella della Striscia di Gaza e della Cisgiordania – ha invece avuto uno sviluppo concettuale diametralmente opposto.

Nell’iter islamico, infatti, il califfo, cioè il sovrano, non è colui che è deputato a reggere la comunità politica in vista del bene comune, ma è il delegato di Maometto al fine di governare la spiritualità della comunità islamica. Nell’affermazione del potere islamico non esiste una via giuridica separabile – in punto di ragione – da quella teologica, per cui non esiste un diritto che non sia diritto islamico, cioè diritto religioso e questo al di qua e al di là della grande biforcazione tra islam sunnita e islam sciita, come dimostra la medesima logica giuridica teocratica rinvenibile in sistemi islamici tra loro differenti come l’Arabia Saudita e l’Iran. Nell’esperienza teologica islamica – diversamente da quella cristiana più sopra ricordata – inoltre, non si è determinata la divaricazione tra sfera temporale e sfera spirituale, per cui lo Stato non è un ente autonomo – sebbene con precisi limiti di ordine morale – ma costituisce l’espressione diretta del Governo di Allah sull’uomo. In questo senso, si dirigono sia gli stessi testi di riferimento della cultura islamica, cominciando proprio dal Corano, sia i testi dei teologi islamici che nei secoli si sono pronunciati sul punto, ma anche le ricognizioni effettuate da attenti studiosi occidentali come, per esempio tra i tantissimi, quelle acute e autorevoli di Bernard Lewis. Alla luce di ciò, dunque, tanto più il popolo palestinese intende aderire al messaggio teologico islamico, quanto più si allontana dalla possibilità concreta di realizzare compiutamente uno Stato, almeno secondo l’accezione che oggi si ha di tale ente; anzi, tanto più il popolo palestinese si allontana dalla reale concezione di Stato quanto più si avvicina a quella della teocrazia così ampiamente diffusa – non a caso – nei Paesi con prevalente cultura islamica. In conclusione: l’idea che in Medio-Oriente possa sorgere – parallelamente allo Stato israeliano – uno Stato palestinese, rischia di diventare – ben al di là dei sanguinosi conflitti e delle ragioni che li supportano – un mero auspicio astratto, ostacolato da difficoltà e problemi di ordine costitutivo intrinsecamente legati per un verso alla stessa idea di Stato – che non può prescindere dagli sviluppi conseguiti in Occidente – e, per altro verso, ai motivi di ordine ostativo presenti all’interno della stessa cultura islamica.

Aggiornato il 18 ottobre 2023 alle ore 10:00