Il macigno del debito pubblico

Le fibrillazioni sui mercati finanziari, che hanno portato a far crescere il rendimento del Btp decennale – su cui si calcola lo spread – intorno al 5 per cento (nel 2020 lo stesso decennale veniva collocato a tasso zero), chiama in causa, ancora una volta, la questione nodale della tenuta del nostro colossale debito pubblico.

In soldoni, secondo i numeri contenuti nella Nadef (Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza) la spesa per interessi nel 2023 sarà pari al 3,8 per cento del Prodotto interno lordo, ovvero oltre 78 miliardi di euro. Nel 2024 si passerà al 4,2 per cento del Pil, ovvero circa 89 miliardi; nel 2025 al 4,3 per cento, pari ad oltre 95 miliardi; nel 2026 al 4,6 per cento del Pil, arrivando a 104 miliardi di euro. Per la cronaca, il grande Mario Draghi, quello che per intenderci ci ha imposto un lasciapassare sanitario, raccontando che chiunque non si fosse vaccinato sarebbe morto, stimava per il prossimo anno un costo di appena 50 miliardi. In pratica, la differenza si mangia ben più di una intera manovra economica.

Evidentemente il genio che tutto il mondo ci invidia riteneva che l’eldorado della moneta facile sarebbe durato ancora a lungo. Invece, si sbagliava e di grosso. Con il crollo delle economie della zona euro a causa delle dissennate misure sanitarie, che hanno visto l’Italia nettamente al primo posto, e le altrettanto dissennate inondazioni di liquidità realizzate dalla Banca centrale europea, non bisognava aver ottenuto il premio Nobel per prevedere che si sarebbe innescata una tumultuosa ripresa dell’inflazione. Inflazione a due cifre che, inevitabilmente, ha condizionato le maggiori banche centrali a rialzare in modo drastico il costo del denaro, facendo lievitare i rendimenti delle nuove emissioni dei titoli di Stato.

D’altro canto, mentre prima del Covid il debito pubblico rappresentava circa il 134 per cento del Pil, attualmente esso viaggia intorno al 150 per cento, contro circa il 92 per cento della media europea. Ora, entro una certa misura, il combinato disposto di inflazione e aumento dei tassi d’interesse rappresenta un doppio vantaggio per lo Stato debitore, in quanto l’aumento nominale delle entrate pubbliche si coniuga con i rendimenti assai contenuti delle vecchie emissioni dei titoli di Stato. Infatti, il valore di questi titoli sul mercato secondario registra perdite che in alcuni casi raggiungono il 30 per cento.

Tuttavia, dato che ogni anno l’Italia deve rinnovare ben oltre 400 miliardi di detti titoli – tra Bot, Btp, Cct e Ctz – è sulle nuove emissioni che si gioca la partita della stabilità finanziaria del Paese. Un Paese che porta sulle spalle il macigno di un debito pubblico che sta per raggiungere i tremila miliardi di euro, soprattutto dopo le folli ubriacature di chi lo ha preceduto, obbliga l’attuale Governo di centrodestra, o destracentro che dir si voglia, a mantenere una rigida disciplina di bilancio, onde tenere assolutamente sotto controllo il costo già esorbitante della citata spesa per interessi. Naturalmente la presenza di una opposizione giallorossa fortemente orientata al deficit-spending, raccontando l’eterna favola dei pasti gratis, non agevola l’arduo compito di tenere in ordine i conti pubblici. Staremo a vedere.

Aggiornato il 05 ottobre 2023 alle ore 09:29