Defenestrazione del centrodestra: una storia antica

Sui media e nei salotti radical chic si scommette sulla caduta del Governo Meloni e sull’arrivo di un Esecutivo di “tecnici” reclutati all’insegna della responsabilità nazionale. Dov’è la novità? Ormai, la sistematica violazione della sovranità popolare è diventata prassi consolidata dal 2011, anno della defenestrazione di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi. La sinistra, che è minoranza nel Paese, vi ricorre per ritrovarsi a governare senza la legittimazione del voto popolare. È una scorciatoia che, purtuttavia, necessita di alcune decisive complicità, interne alla nazione ed estere. Nonostante la nostra sia una solida democrazia, può accadere che la volontà popolare venga stuprata in nome del suo stesso bene. Negli altri Paesi europei una tale torsione dell’istituto democratico è rarissima, se non impossibile. Molte possono essere le risposte al perché ciò avvenga in Italia – con allarmante frequenza – e tutte contengono una porzione di verità.

Tra esse, quella che riteniamo più convincente attiene alla frattura insanabile che si è determinata all’interno della borghesia produttiva ai tempi della comparsa di Silvio Berlusconi nell’agone politico. Con lui la frazione mediana della borghesia produttiva comprese di poter vantare una propria soggettività nell’ambito delle dinamiche economiche e sociali. In particolare, sentiva di potersi rappresentare come blocco sociale nella rivendicazione delle proprie istanze, del tutto affrancata dall’egemonia che il grande capitalismo dinastico storicamente esercitava sulla sottostante società civile. Il luogo di raccolta delle forze egemoni era plasticamente reso dall’allegoria dei “salotti buoni” della finanza e dell’industria. Il volto simbolo di un mondo dalle connotazioni castali era quello della famiglia Agnelli. Al contrario, il “Terzo Stato”, la fascia medio-bassa del ceto produttivo si riconosceva nello spirito del “popolo delle partite Iva” ma non aveva un suo leader, riconoscibile come rappresentante di un soggetto economico-sociale unitario.

Non l’ha avuto fino al 1994, cioè fino a quando Berlusconi non si è fatto avanti per dire: sono io il paradigma dell’italiano medio che produce sognando la ricchezza e che ce la fa con le sue sole forze; dell’italiano ottimista che non si piange addosso, che se cade si rialza e che si rimbocca le maniche, che procede nella vita portando il sole in tasca. La rivendicazione non solo di un’autonomia ad autogovernarsi nei processi produttivi, ma questo blocco sociale – che per la prima volta nella storia repubblicana si riconosce essere tale, essendo stato assorbito fino a quel momento nel corpaccione interclassista della Democrazia cristiana – manifesta la pretesa di guidare la nazione, in forza del maggior consenso elettorale. Una così sfacciata ribellione all’ordine costituito delle gerarchie capitaliste provoca una rottura insanabile tra i due sottoinsiemi dell’universo borghese. Nella linea faglia, che terremota le catene del valore del sistema produttivo, s’inseriscono i partiti “Zelig” della Seconda Repubblica.

È accaduto che una sinistra, orfana delle pulsioni ideologiche del socialismo che non avevano saputo colmare il vuoto lasciato dal fallimento delle declinazioni occidentaliste del comunismo, si ritrovasse sulle tematiche e sulle parole d’ordine del progressismo. La sinistra, ormai smarritasi nell’incedere degli eventi storici a lei avversi, coglie un’ancora di salvataggio nel connettersi alle istanze dell’alta borghesia capitalista. Negli anni Novanta, archiviata la lotta di classe, si registra l’avvento delle politiche consociative che tengono dentro rappresentanze partitiche di sinistra, associazioni datoriali della grande industria, sindacati dei lavoratori, corpi dello Stato, sistema mediatico, associazionismo volontaristico e filantropico diffuso a struttura reticolare all’interno della società. Dal patto nazionale per l’egemonia vengono esclusi i ceti medi produttivi tradizionali, a cui la grande borghesia non riconosce la dignità di soggetto unitario mentre sinistra e sindacati li bollano col marchio d’infamia della contiguità all’individualismo utilitaristico della destra. Berlusconi si candida a sbarrare la strada allo strapotere di questo ampio fronte di soggetti egemoni, altezzosamente propostosi al Paese nelle vesti di una “gioiosa macchina da guerra”.

Nasce il centrodestra. Il conflitto si sarebbe dovuto tenere entro il perimetro della dinamica elettorale, mediante l’uso virtuoso dell’alternanza alla guida del Governo che la natura bipolare della forma democratica avrebbe garantito. Ma non è andata così. Ben presto, la parte progressista associata agli interessi dell’alta borghesia del capitalismo dinastico comprende il rischio per i propri interessi di affidarsi a un meccanismo totalmente sottoposto alla volontà popolare attraverso l’espressione di voto. Da qui, la decisione di ricorrere al ribaltamento della sovranità costituzionalmente assegnata al popolo attraverso l’espediente della crisi di governo pilotata tramite la “compravendita” di singoli parlamentari o di gruppi di eletti con una coalizione di partiti ma disponibili a trasferirsi sull’opposto fronte. Il disconoscimento dell’intangibilità della volontà popolare determina due conseguenze. La prima, immediata; la seconda, nel medio-lungo periodo.

Subito si dà corso alla cosiddetta soluzione istituzionale con l’insediamento di Esecutivi fintamente neutri ma, nella realtà, popolati di cosiddetti “tecnici” sensibili alle pressioni della classe egemone. Successivamente, prende corpo il fenomeno dell’astensionismo, peraltro quasi sconosciuto nella Prima Repubblica, grazie al crescere nell’opinione pubblica del senso d’inutilità del proprio voto ai fini della composizione del Governo nazionale. Composizione sottoposta al concorso di fattori alieni alla volontà popolare. Dal 1994, il primo Governo tecnico è con Lamberto Dini che prende il posto di Silvio Berlusconi, la cui maggioranza era andata in frantumi dopo solo otto mesi di Governo. Significativo che, il 17 gennaio 1995, a giurare come ministro degli Esteri, in qualità di “tecnico” vi fosse la contessa Susanna Agnelli, sorella di Gianni, “l’Avvocato”, volto simbolo della principale dinastia industriale italiana. Il secondo Governo tecnico, che interviene a interrompere l’esperienza di un Esecutivo di centrodestra, è quello di Mario Monti. Nella circostanza, è servita una forte interferenza di poteri e fattori esterni alla nazione per negare la volontà popolare.

La manovra sullo spread è stata una modalità efficacissima per mettere l’Italia in ginocchio e per accompagnare alla porta i suoi legittimi governanti. Successivamente, vi sono stati Governi di cosiddetta “responsabilità nazionale”, dalle caratteristiche del tutto simili a quelle dei Governi tecnici. Il comun denominatore che ha legato tali esperienze è stato il voler tenere al potere la sinistra, garante degli interessi economici del capitalismo dinastico barattati con l’attribuzione della piena giurisdizione sulla scelta dei diritti civili da imporre alla nazione. Adesso ci ritroviamo con un Governo di centrodestra che riconferma l’intenzione di dare precedenza alla difesa dei ceti produttivi deboli e alle famiglie a basso reddito e di ripristinare i costumi graditi alla maggioranza degli italiani. Ecco allora che il vecchio asse alta borghesia – sinistra progressista torna a farsi sentire agitando lo spettro della crisi. I giornali-voce del padrone rispolverano dalla soffitta, nella quale era stato riposto, l’inossidabile armamentario dell’allarmismo sui conti pubblici.

L’obiettivo è di provocare un’onda d’urto sui mercati finanziari contro la quale vada a infrangersi l’odierno Governo. L’operazione-destabilizzazione è cominciata da qualche settimana. Ne abbiamo scritto. Tuttavia, non siamo nel 2011 e Giorgia Meloni non corre gli stessi pericoli che affondarono Berlusconi. Anche a causa della congiuntura internazionale, questo non è il momento di provocare una crisi politica in Italia. Il fronte occidentale e i mercati finanziari, che hanno scommesso sulla causa ucraina, non possono permettersi il lusso di perdere una paladina di Kiev, negli stessi giorni in cui il premier polacco, Mateusz Morawiecki, minaccia ritorsioni contro il Governo ucraino per la concorrenza sleale operata da Kiev ai danni della Polonia sull’esportazione dei prodotti cerealicoli e in Slovacchia torna a vincere Robert Fico, capo dei filorussi nel suo Paese. Fanno male i cospiratori a sperare che lo spread s’impenni per mettere in atto il loro losco piano.

L’unico rischio concreto potrebbe arrivare dal mercato autunnale delle poltrone parlamentari. Un discreto numero di deputati e senatori del centrodestra dovrebbe traslocare a sinistra per provocare la crisi della maggioranza. Se fossimo stati in altre legislature il sospetto di un possibile ribaltone sarebbe stato fondato. Questa volta, il rischio è di gran lunga inferiore, perché i parlamentari sembrano fortemente fidelizzati a sostegno dei rispettivi leader di partito. Sebbene in politica valga la massima del “mai dire mai”, è ragionevole ritenere che tutti i parlamentari della maggioranza desiderino restare ben saldi sui loro scranni accanto a un premier vincente, piuttosto che tentare di esplorare terre incognite con la patente poco lusinghiera di traditori della volontà popolare. Tuttavia, il fatto che non esistano rischi seri per il suo Governo, non libera Giorgia Meloni dall’impegno di fare cose giuste per gli italiani. Tutti gli italiani. Anche per quelli che spesso e volentieri dimenticano di esserlo e brigano per far male al proprio Paese. E dei giornaloni che urlano e strepitano in un monotono, disperante al lupo al lupo, che fare? Non bisogna dargli troppo peso perché, come era solito ripetere il mitico Indro Montanelli: “Un giornale, il giorno dopo, è buono solo per incartare il pesce”.

Aggiornato il 03 ottobre 2023 alle ore 09:53