In Italia, i problemi sono di tale ampiezza che quasi ci si dimentica di ciò che succede in Ucraina. Eppure, il conflitto in atto dovrebbe preoccuparci perché orienta i nostri destini, personali e collettivi. La guerra ha inciso pesantemente – e continua a farlo – non solo sulle coscienze delle persone ma anche sui portafogli delle famiglie e delle imprese. Tutto ciò che di negativo sta accadendo alla nostra economia – e in generale a quella dell’Europa occidentale – ha una stretta correlazione con le vicende belliche. Finora, la coalizione occidentale, intervenuta a sostenere la resistenza ucraina contro l’invasore russo, ha fatto perno su un postulato assoluto: vincere sul campo per costringere Mosca ad accettare di sedere a un tavolo negoziale in posizione di debolezza. Allo scopo, i partner della Nato si sono spesi senza risparmio per fornire armi e denaro a Kiev. Cosicché, le aspettative da parte degli ucraini sono cresciute nel corso del tempo. Dall’iniziale intenzione di recuperare i territori persi dall’inizio dell’aggressione del 24 febbraio 2022, i vertici politici di Kiev oggi si focalizzano sul bersaglio grosso: la riconquista della Crimea, perduta con la prima azione di forza intentata da Mosca nel febbraio del 2014, a seguito della rivoluzione di Piazza Maidan.
Sarebbe tutto legittimo se non fosse che tra il desiderio e la realtà vi si frapponga uno spazio mentale da colmare con robuste dosi di pragmatismo. La controffensiva ucraina non sta dando gli esiti sperati. L’atteso impatto devastante, propiziato dall’impiego dei sistemi d’arma occidentali tecnologicamente superiori a quelli del nemico, non c’è stato. L’esercito russo non è in rotta e la guerra, che avrebbe dovuto essere di movimento, si è trasformata in guerra di posizione secondo i modelli della tattica bellica novecentesca. L’incapacità a raggiungere in breve tempo il risultato sperato sta spingendo non pochi politici occidentali a porsi più di una domanda sull’effettiva utilità della conduzione del conflitto attraverso i piani d’attacco stabiliti prima dell’inizio della controffensiva ucraina. Non parliamo dei soliti noti “pacifisti”, “quinte colonne” naturali di chiunque voglia recare danno alla civiltà occidentale. A dubitare sono componenti delle alte sfere istituzionali dei Paesi maggiormente coinvolti nel sostegno economico-militare a Kiev.
Che in Europa – come negli Stati Uniti – prenda quota l’idea di un’inversione di rotta a dirlo non è un giornale dell’ultrasinistra ma il prestigioso Economist il cui titolo di copertina – “Time for a rethink” (È tempo di un ripensamento) – dello scorso 21 settembre squarcia la coltre di silenzio che solo fino a qualche settimana ha difeso il tabù del negoziato con Mosca. Non è un caso se, eccezionalmente, abbiamo ritenuto opportuno riprodurlo in testa a questo scritto. Non è che avessimo messo in pausa il cervello al punto da non trovare niente di meglio da proporre ai lettori. La verità è che in un’espressione commendevolmente franca si legge tutto il disagio e la frustrazione di una politica (occidentale) che ha sbagliato a fare i suoi calcoli.
Non prendiamoci in giro, già dalle prime fasi del conflitto, dietro le belle parole e i nobili sentimenti, traspariva l’evidente desiderio degli Stati occidentali di voler ingaggiare una guerra con il gigante russo per interposta Ucraina o come ha scritto qualcuno con amaro sarcasmo: “Combattere la Russia fino all’ultimo ucraino”. Le conseguenze di un’ingiustificata ostinazione sono sotto gli occhi di tutti. Al momento, gli esiti fattuali possono essere riassunti nei seguenti cahiers de doléances. 1) Abbiamo letteralmente spinto la Federazione Russa tra le braccia del gigante cinese, che resta il vero nemico della civiltà occidentale, stagliato sull’orizzonte di questo secolo; 2) L’Europa si è complessivamente impoverita; 3) Gli apparati industriali nazionali sono andati in crisi a causa della sincope al processo di approvvigionamento delle materie prime energetiche a basso costo, intervenuta dopo la rottura con l’ex partner commerciale russo; 4) a cascata, bisogna fare i conti con un’inflazione che, nonostante le misure draconiane prese dalla Banca centrale europea riguardo agli aumenti in rapida sequenza dei tassi d’interesse sul costo del denaro, non scende alla velocità auspicata; 5) La previsione di crescita del Pil italiano è dello 0,8 per cento, in significativo ribasso rispetto alla stima dell’anno precedente; 6) Il blocco dell’esportazione dei cereali dall’Ucraina e dalla Russia stessa ha creato i presupposti per lo scoppio di una carestia nelle aree più povere del pianeta – in particolare in Africa – destinata a scatenare una crisi migratoria di dimensioni bibliche; 7) Nell’erroneo presupposto di riuscire a contenere il conflitto all’interno del quadrante dell’Ucraina orientale e meridionale, non ci siamo accorti che la contagiosità della guerra l’avrebbe portata lontano dal focolaio che l’ha originata. Ciò che sta accadendo nell’Africa sub-sahariana, tra ribellioni popolari e colpi di Stato, sta producendo un processo di sostituzione traumatica della tradizionale influenza esercitata dalle potenze europee ex coloniali con quella di nuovi soggetti globali quali la Cina, la Russia e, con qualche velleità di troppo, la Turchia. La conseguenza della perdita di presa sul Continente africano porterà l’Europa ad avvitarsi su sé stessa; 8) L’interruzione del dialogo con la Russia ha spinto Mosca ad accelerare il processo di allargamento dell’organizzazione Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), mediante l’adesione di Stati non allineati o attribuibili al crescente fronte anti-statunitense e anti-occidentale. Una struttura di coordinamento tra Stati che copre il 42 per cento della popolazione mondiale e il 20 per cento del Pil del pianeta sarà presto in grado di creare un circuito economico-finanziario autonomo, non più assoggettato all’imperio del dollaro statunitense nella regolazione degli scambi commerciali; 9) Con questa guerra abbiamo avvicinato considerevolmente il rischio di un’escalation nucleare dopo che per decenni eravamo riusciti, attraverso il dialogo e la cooperazione, ad allontanarlo dall’orizzonte esistenziale della civiltà occidentale.
Serviva che si arrivasse a tanto? Piangere sul latte versato serve a poco. Ciò che conta adesso è capire che fare. Ripensare la strategia dello scontro frontale da qui a qualche mese potrebbe non essere più un’opzione ma una necessità. Il punto di non ritorno della guerra russo-ucraina è noto ai Governi dei Paesi Nato. Esso non è un’unità di tempo ma un luogo fisico: la frontiera della Crimea. La difesa della penisola distesa nel Mar Nero è una priorità strategica assoluta per l’esercito russo. Motivo per cui, se mai i soldati di Kiev dovessero riuscire ad affacciarsi sul confine con la penisola, Mosca reagirebbe ricorrendo all’impiego dell’arma tattica nucleare. E se, in ipotesi, Vladimir Putin indugiasse nell’adottare la misura estrema, tra le mura del Cremlino si concretizzerebbe il tanto temuto colpo di Stato. A Mosca prenderebbe il potere qualcuno in grado di impartire quell’ordine definitivo. Per l’Ucraina sarebbe la fine. E per l’Occidente e la Russia l’inizio dell’annientamento reciproco.
In Italia, il Governo di centrodestra non sente ragioni: è con Kiev e per la linea dura con Mosca, fino alle estreme conseguenze. Ma è pur vero che i partiti che compongono la coalizione di centrodestra fanno vanto (tutti) di avere solidi rapporti con la destra repubblicana statunitense. Se ciò è vero, allora perché non essere coerenti? Invece di limitarsi ad ascoltare i sodali di Oltreoceano quando fa comodo, perché non li si ascolta anche quando dicono cose che piacciono meno? Ora, a Washington non il solito Donald Trump ma tutto il Gop (Grand Old Party) discute per mettere fine ai finanziamenti e alle forniture d’armi all’Ucraina. La destra americana ha capito che l’Occidente si è incamminato su una china pericolosa e vuole cambiare rotta. Tra tredici mesi gli americani voteranno per rinnovare la presidenza e una vittoria del candidato repubblicano sarà possibile. Dobbiamo aspettare che alla Casa Bianca cambi l’inquilino o possiamo sperare che il nostro Governo non si neghi, insieme ai partner europei, a un ripensamento della strategia sulla guerra russo-ucraina? Riconsiderare una scelta sbagliata perché eccessivamente onerosa, non è affatto disonorevole. Al contrario, è indice di maturità e di attenzione agli interessi della nazione.
Aggiornato il 27 settembre 2023 alle ore 10:26