Nella communis opinio si ritiene che quella dell’ergastolo sia la pena più lunga nel nostro ordinamento. Ed è così se ci si riferisce alla privazione della libertà personale attraverso la detenzione. Ma se parliamo del recupero della dignità individuale, della reputazione, della possibilità di reinserirsi nel mondo del lavoro, la situazione è assai più complessa, prendendo le mosse ben prima della detenzione, a far data dall’avviso di garanzia, oggi diventato quasi come quel titolo di cavaliere, che insieme a un buon sigaro – diceva Vittorio Emanuele III – non si negavano a nessuno!
Tale avviso, in realtà, si è rivelato esattamente il contrario di ciò che avrebbe dovuto essere, risultando non una tutela in favore del soggetto inquisito, bensì una sorta di condanna anticipata a livello mediatico, una gogna con ricadute pesantissime sull’onorabilità e l’affidabilità non solo del malcapitato, ma anche dei suoi familiari. Tramite tale arma micidiale, sono stati fatti cadere addirittura dei governi, sono state troncate carriere politiche e amministrative, distrutte famiglie, arrecati danni economici, stravolte le regole della democrazia e violato il principio costituzionale della presunzione di innocenza sino al terzo grado del giudizio.
Come già ricordato in altri scritti, il nostro compianto Maestro di Procedura civile, e poi giudice costituzionale, Virgilio Andrioli, giusto 50 anni or sono, a noi allievi di giurisprudenza dell’Università La Sapienza diceva con amara ironia romanesca: “L’Italia è la culla der diritto, che ce s’è cullato così bene, che s’è addormito e nun se sveja più!”. Ma oggi siamo al coma profondo e – se non intervengono con urgenza cambi di rotta – irreversibile.
Un altro paradosso è che mentre attraverso gli strumenti di comunicazione di massa si sente continuamente parlare di “rieducazione del detenuto” a partire dal contesto carcerario – tramite opportunità di lavoro, di addestramento professionale, di formazione culturale con percorsi dedicati, anche sino alla laurea – quando si passa dalla “poesia” delle altisonanti affermazioni di principio alla “prosa” della realtà occupazionale e professionale, si apre un baratro di incongruità.
Sul fronte rieducativo in parola, risulta particolarmente significativa la Legge Smuraglia (numero 193 del 22 giugno 2000 (“Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti”), che ha introdotto sgravi contributivi e fiscali per le imprese cooperative che assumono detenuti in stato di reclusione o ammessi al lavoro all’esterno.
Questo roseo quadro riabilitativo riguarda – paradossalmente – solo il settore privato, dal momento che quello stesso Stato che investe sul recupero morale, civile e professionale del reo, gli chiude le porte in faccia non solo se è stato dichiarato colpevole con una sentenza definitiva, ma già durante le infinite more processuali, in spreto al principio della presunzione di innocenza proclamato dall’articolo 48 della Costituzione: “Ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata”.
Ciò in teoria, ma in pratica ben diversa e amara è la situazione: se un mero “indagato” vuole partecipare a dei concorsi, o se è in valutazione per essere promosso nel comparto pubblico, la presenza di un “carico pendente” – di fatto – gli sbarra la strada e, con le lungaggini processuali, può risultare vanificante dopo anni di attesa, sia per un concorso che per una promozione a favore di chi è già in servizio. In linea generale, quella di “non aver riportato condanne penali e di non avere in corso procedimenti penali o amministrativi” è una clausola preclusiva per qualunque pubblico concorso! La conseguenza è che, se è stabilita un’età massima per parteciparvi, lo sventurato rimane fuori durante le more processuali. Del pari – nel caso di una eventuale promozione – l’accertamento dell’innocenza del malcapitato può giungere quando ormai è scattata inesorabilmente l’età della pensione.
Soffermandoci in particolare sulla situazione carceraria cui si è fatto cenno, non possiamo non evidenziare questo macroscopico paradosso: lo Stato, che pur investe sulla formazione professionale e/o culturale del reo, gli “chiude le porte in faccia” quando rientra nella società civile. Ricordiamo altresì che fino a che non è intervenuta la Corte costituzionale (sentenza 23 marzo 1994, numero 108), dichiarando l’incostituzionalità della norma che prevedeva tra i requisiti per l’ammissione al concorso nelle Forze armate l’appartenenza a famiglia di estimazione morale indiscussa, anche questa “tara genetica” aveva la sua esecranda influenza. In particolare, la Consulta intervenne riguardo al menzionato requisito familiare, dichiarando l’illegittimità della correlata esclusione di candidati da un pubblico concorso, in ragione di elementi di apprezzamento estranei alla persona del candidato stesso. Ciò nondimeno, nella realtà il dato familiare continua a incidere – seppure non palesemente – sugli orientamenti valutativi riguardanti il candidato per l’esito finale delle prove selettive.
Per converso, quanti figli cosiddetti “di buona famiglia”, quindi in possesso di un rassicurante “pedigree morale”, si sono macchiati di reati, fino addirittura di terrorismo? Ecco allora che si impone una domanda circa il corto circuito logico che caratterizza il settore pubblico rispetto al privato: prima di chiedere a un singolo datore di lavoro di consentire a un ex detenuto, che abbia scontato la pena di reinserirsi a pieno titolo nella società civile, assumendolo nella propria struttura, non dovrebbe essere prioritariamente il comparto della Pubblica amministrazione (Stato, Regioni, Comuni, Province, Enti pubblici) a farsi prioritariamente carico del recupero dei tanti “figliol prodighi”, che chiedono meritatamente di reinserirsi nel consorzio civile e per i quali lo Stato ha speso e investito durante la detenzione?
Vale la pena ricordare che nel Diritto romano esisteva l’istituto della “restitutio in integrum”, che consentiva di essere reintegrati in tutte le facoltà e le dignità – venute meno in seguito ad una condanna penale – cancellandone tutti gli effetti. In Italia, sotto questo specifico profilo indegna erede di quella tradizione di giustizia formale e sostanziale, non esiste la possibilità di essere “smacchiati” per colpe per le quali si è giustamente pagato. L’Italia nella materia penale e amministrativa ha tradito i suoi nobili natali, perché non solo macchie antiche, ma anche solo presunte (esempio, se Tizio viene meramente indagato per furto) perseguiteranno per lungo tempo i diretti interessati e i loro congiunti, data la lentezza della giustizia.
Per giungere a tempi più recenti, vorremmo concludere con un richiamo estremamente significativo: verso la fine dell’Ottocento furono accolti in apposite Navi scuola alcuni giovanissimi dediti alla piccola delinquenza, quasi sempre per fame, offrendo loro la possibilità di diventare mozzi della Regia Marina e di farvi carriera. Oggi, nel pieno del Terzo millennio, l’Italia è regressiva non solo rispetto al richiamato Diritto romano ma anche riguardo all’età monarchica, per il marchio di un reato che comporta – di fatto – una condanna alla morte civile, da parte di quello stesso Stato che chiede al privato datore di lavoro di accordare all’ex detenuto quella fiducia di cui che esso in primis non lo ha ritenuto meritevole.
Il paradosso ulteriore è che – come accennato – lo Stato ha investito nel recupero sociale del detenuto, per poi vanificarlo nel momento stesso in cui gli chiude la porta in faccia, chiedendo al privato cittadino di assumere il soggetto sul quale ha investito, ma di cui non si fida. Soldi sprecati o schizofrenia normativa? Al lettore l’ardua sentenza!
Aggiornato il 20 settembre 2023 alle ore 11:26