L’ipocrisia sociale che si cela dietro la (ri)educazione

Molto pericolosa è l’ipocrisia propagata a livello sociale, poiché può inquinare la vita della collettività e le istituzioni. Ne ha dato una illuminante interpretazione Renato Giorda, teorizzando una “fenomenologia della malafede” che pervade il sentire sociale: il suicidio, esemplificava Giorda, tempo fa era considerato l’esito di una patologia mentale. Si trattava soltanto di individuarla e curarla. Sicché si pensava che si potesse morire “per suicidio”, come per una polmonite mortale.

Il discorso, in sé tranquillizzante, era perciò chiuso, finché non si intervenne a rimuovere questa evidente ipocrisia, mostrando che quasi mai la causa del suicidio era da individuare in una malattia della mente, ma in una serie di elementi esistenziali, relazionali, psicologici che contribuivano ad alimentarne il desiderio. L’ipocrisia sociale fu in tal modo smascherata con grande vantaggio per tutti, non esclusi i potenziali suicidi.

La situazione non pare oggi diversa, con riferimento alle posizioni pubblicamente assunte da noti personaggi su fatti di cronaca di brutale violenza, come quello avvenuto a Caivano. Due le posizioni principali. Da un lato, quella espressa dal parroco Don Maurizio Patriciello, favorevole ad abbassare la soglia di imputabilità dei minori per i reati gravi; dall’altro, quella esemplata da Gherardo Colombo, per il quale il carcere non serve a nulla, mentre invece è necessario stare sui territori per educare.

Chi ha ragione? Temo nessuno dei due. Sono entrambi vittime – e noi con loro – di una pervasiva ipocrisia sociale derivante addirittura dalla Costituzione: quella secondo cui la pena deve esprimere una funzione rieducativa (nella quale il parroco crede e Colombo no, ma entrambi la suppongono). Non la possiede di certo quella carceraria, che, delle pene, rappresenta la più comune e diffusa. E non è difficile esserne avvertiti, in virtù di una osservazione empirica e di un principio di ragione.

Dal primo versante, infatti, chi abbia esperienza nel settore sa bene che il carcere rieduca all’illecito e mai ad altro. Certo, il lavoro e la scuola intramurari sono importanti, ma attengono non alla pena in sé, quanto alle modalità della sua applicazione. Dal secondo versante, occorre considerare come ogni autentica educazione sia pensabile soltanto a partire dall’orizzonte della libertà e mai della costrizione. Sicché, ipotizzare una rieducazione da impartire a soggetti “in vinculis” equivale a quella che si volesse riservare ad un cane legato alla catena: un’impresa impossibile, simile a quella di Sisifo.

Ne viene che rieducazione e stato di costrizione carceraria sono incompatibili e che, perciò, predicare la funzione rieducativa della pena (costrittiva) significa enunciare un ossimoro, ove emerge la perdurante ipocrisia sociale di cui sopra. E se, per smascherarla, bisogna criticare la Costituzione, ben venga la critica perché più importante è il testo di legge – e quello costituzionale, non essendo un dogma, lo è in sommo grado – più opportune sono le critiche protese a migliorarlo, eliminandone le palesi aporie. Come ha chiarito Vittorio Mathieu, la pena serve soltanto ad infliggere una sofferenza a chi abbia consumato dei reati: può risultare sgradevole, ma solo così si sconfigge l’ipocrisia.

Va tuttavia notata una seconda ipocrisia sociale, dovuta alla fiducia incondizionata e onnipresente nell’educazione, che secondo i più servirebbe a scongiurare il sorgere della criminalità. Non è così. Infatti, non basta conoscere il mondo (la ragione), per sapersi orientare fra il bene e il male (la volontà). Se così fosse, Cristo, invece di farsi crocifiggere, avrebbe scritto un paio di libri di fine teologia, incaricando gli apostoli di diffonderli e di spiegarli alle genti. Fu invece necessario testimoniare l’amore fino alla morte.

Per questo ci dobbiamo chiedere seriamente: la nostra scuola, asservita alle competenze da trasmettere a ogni costo, ossessionata da programmi, protocolli, percorsi, circolari, zeppa di insegnanti non sempre motivati e spesso ridotti a ergastolani delle riunioni, preoccupata più delle metodologie didattiche che dei contenuti, è in grado di formare esseri umani, consapevoli e degni della libertà interiore di cui sono stati dotati?

Insomma, la scuola è capace di testimoniare – e non di insegnare – il buon uso della libertà? Memore del monito di Ovidio – “vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori” – ne dubito.

Aggiornato il 18 settembre 2023 alle ore 10:21