L’esito del G20 in India restituisce una certezza: l’Italia ha una politica estera. Potrebbe sembrare un’ovvietà, ma non lo è. Uno degli effetti più devastanti dell’azione di governo della sinistra in questo ultimo decennio ha riguardato il trasferimento della nostra politica estera all’innaturale groviglio d’interessi lobbistici e di potere, mosso da una dominante “germanocentrica” coagulatasi a Bruxelles.
Negli anni cupi dei Governi commissariali camuffati da Esecutivi di responsabilità nazionale, l’eccezione è stata il Governo Conte I – quello leghista-pentastellato – che navigando di bolina tra l’America trumpiana e la Via della Seta cinese, in modo piuttosto sgangherato e parecchio goffo, ha cercato di ritagliarsi spazi alternativi allo status di totale soggezione al dominus continentale. Esclusa questa parantesi, per il resto del tempo siamo stati il cane al guinzaglio dell’asse carolingio. Che per essere una nazione diretta discendente della grandezza egemonica di Roma non è propriamente la sorte più auspicabile. Si obietterà: ma se abbiamo ceduto sovranità è stato per aiutare a vivere il sogno spinelliano degli Stati Uniti d’Europa. Stati Uniti un corno! L’unità europea non esiste. Ciò che c’è al momento lo descrive alla perfezione Pietro Senaldi su Libero: “Un consiglio d’amministrazione dove comandano i più forti”.
Adesso, però, con il Governo Meloni la musica ha cambiato spartito. L’esito per l’Italia del G20 di Nuova Delhi lo dimostra. Tralasciando le parole roboanti con cui vengono scritte le soluzioni finali dei vertici globali – grandi promesse che non avranno alcuna ricaduta concreta nel mondo reale – ciò che fa la differenza sono le scelte geopolitiche visibili in controluce. La più significativa che viene da Delhi è l’ammissione al club dei G20 dell’Unione africana, in rappresentanza di 55 Stati del “Continente nero”. La decisione fortemente voluta dal premier indiano Narendra Modi, e appoggiata dagli Stati Uniti d’America, dà conto di una volontà inclusiva di una parte delle nazioni del G20 nel farsi carico delle problematiche di una vasta area geografica del pianeta povera e in forte ritardo di sviluppo. Una scelta di portata storica che non piace del tutto a Cina e Russia, le quali avevano per l’Africa ben altri progetti da declinare seguendo le regole di condotta del neo-colonialismo. E non incontra il favore della Francia che, nel volgere di pochi anni, ha visto svanire l’influenza che per secoli ha esercitato su un continente che per buona parte è stato una sua colonia.
Al contrario, l’ingresso permanente dell’Unione africana (Ua) tra le grandi economie mondiali piace all’Italia. Il Governo Meloni, già all’atto del suo insediamento aveva puntato, attraverso il varo e l’implementazione del “Piano Mattei”, più di una fiche su un asse privilegiato tra la sponda italiana del Mediterraneo e un gran numero di Paesi africani. La chiave per associare l’Italia alla fase di sviluppo delle economie e delle società africane è nel modello di partnership che la Meloni propone, riassumibile con le parole da lei pronunciate al summit: “Il Governo italiano sta lavorando per dare vita ad un ampio Piano di cooperazione e sviluppo che porta il nome di un grande italiano, Enrico Mattei, fondatore di Eni. La sua formula ebbe successo perché seppe coniugare l’esigenza di una Nazione come l’Italia di rendere sostenibile la sua crescita con quelle degli Stati partner di conoscere una stagione di sviluppo e progresso. Oggi la storia ci pone davanti le stesse esigenze”.
L’approccio paritario non colonialista alle istanze delle popolazioni africane apre per il nostro Paese una finestra di opportunità nell’ottica dell’irrobustimento delle relazioni e della cooperazione internazionali rispetto alle politiche di altri nostri concorrenti europei che sono rimasti inchiodati a visioni Otto-novecentesche dei rapporti con i Paesi del Terzo mondo. Ma la missione a Delhi ha riservato altri colpi messi a segno dalla leader italiana. Si potrebbe dire eufemisticamente che da oggi cambiamo strada, in senso letterale. Chiusa (o quasi) la partecipazione alla Via della Seta, sollecitata dal gigante cinese, l’Italia è pronta a imboccare la “Via delle spezie”, cioè il costituendo corridoio commerciale che, partendo dall’India e passando per gli Emirati Arabi Uniti e per l’Arabia Saudita, approderà in Europa. Il progetto di cui il premier indiano Narendra Modi si è assunto la paternità, non senza la benedizione di Washington, prevede investimenti per 600 miliardi di dollari, da destinare alla costruzione e al rafforzamento infrastrutturale portuale e ferroviario degli Stati partecipanti allo scopo d’incrementare del 40 per cento l’attuale livello d’interscambio commerciale tra l’India, il Medio Oriente e l’Europa. Un colpo assestato al ventre del mercato cinese che, tagliato fuori dalla nuova fase di rilancio dei rapporti economici con il blocco dei Paesi europei, vede ridursi fortemente le chances di conquistare l’egemonia politico-finanziaria sull’Europa, sull’Africa e sull’Asia.
Ora, nonostante il fatto che alcune posizioni assunte possano convincere meno e altre possano piacere di più, ciò che conta è che delle scelte siano state compiute dall’Italia e non invece delegate ad altri soggetti. Adesso, che piaccia o no, sappiamo quanto segue: 1) Siamo con l’Ucraina senza se e senza ma; 2) Siamo organici alla politica estera statunitense essendoci presentati come i più affidabili alleati di Washington nello scacchiere del Mediterraneo allargato; 3) Come Italia aspiriamo ad avere un ruolo nel quadrante dell’Indo-Pacifico, attraverso un rapporto privilegiato con l’emergente superpotenza commerciale indiana; 4) Ci apprestiamo a riallineare gli accordi commerciali con il gigante cinese – che resta un partner strategico – entro parametri più sostenibili rispetto a quelli fissati con l’adesione al programma “Belt and Road Initiative” (La Via della Seta, ndr); 5) Attraverso il “Piano Mattei” l’Italia si candida a essere ponte, in posizione di equilibratore e mediatore, tra l’Africa e l’Occidente sviluppato.
Il punto debole di tutta la tessitura internazionale del Governo di centrodestra resta drammaticamente l’Unione europea. Nel contesto comunitario siamo ricattabili. Il Governo è consapevole del fatto che su questo fronte vi sia da combattere. La missione che attende il nostro Governo a Bruxelles si focalizza sulla modifica del Patto di Stabilità. E che questa sia la madre di tutte le battaglie lo attesta la circostanza che si sia scomodato Mario Draghi in persona per dare una mano alla Meloni. L’ex premier ha spiegato, via “Economist”, ai partner europei che la decisione di ripristinare le vecchie regole sui bilanci degli Stati membri senza tenere conto dell’evoluzione storica intervenuta negli anni, a seguito prima della pandemia e poi dello scoppio della guerra russo-ucraina, porterebbe al rischio fallimento dell’Unione stessa. Il fatto che i Paesi della fascia germanocentrica si ostinino a sostenere un rigore finanziario di natura ragionieristica; che non ammettano la possibilità di procedere allo scorporo delle spese militari, della digitalizzazione e della transizione energetica dal calcolo del deficit benché tali capitoli di spesa siano, in assenza di una strategia di finanziamento federale, i puntelli finanziari su base nazionale alle sfide che l’Europa nel suo insieme dovrà affrontare con i competitori globali; che vogliano suddividere in tre categorie di merito i Paesi membri sulla base del debito pubblico raggiunto, rende manifesta la volontà dell’inner circle comunitario filogermanico di mettere in difficoltà l’indesiderato Governo Meloni.
Sappiamo che Francia e Germania non sono nuove a mosse scorrette per far cadere governi non graditi di altri Paesi Ue. La documentazione acquisita sulla “porcata” franco-germanica, nel 2011, ai danni del Governo Berlusconi, ha dimensioni monumentali. Tuttavia – e per fortuna – la storia non si ripete mai uguale a sé stessa. Le situazioni cambiano e anche i rapporti di forza mutano. Oggi Francia e Germania non sono forti e unite come lo erano nel 2011 e l’Italia, per quanto vulnerabile per l’alto livello del suo debito pubblico, non è poi così geopoliticamente debole come lo era diventata nel 2011 a causa della perdita d’influenza sulla Libia. Oggi, Roma ha tutti gli strumenti e le carte in regola per far sentire la sua voce nei consessi europei. Dimostri allora a Bruxelles di avere la schiena dritta e, se necessario, di essere pronta a scatenare l’inferno pur di difendere le sue ragioni. Diversamente, tutto ciò che di buono ha fatto Giorgia Meloni sul terreno scivoloso della politica estera non sarà servito a nulla. E anche la relationship con l’India mai prima d’ora così vicina all’Italia, tornerà a essere un miraggio.
Aggiornato il 11 settembre 2023 alle ore 11:17