Notizia di due settimane fa, l’amministrazione Biden ha autorizzato la desecretazione, su richiesta ufficiale del Parlamento cileno, dei documenti finora riservatissimi relativi all’appoggio che nel 1973 gli Stati Uniti diedero alla destituzione di Salvador Allende e del suo governo. Ma al di là di molti dettagli tecnici e di risvolti interessanti per gli storici e i cronisti, il materiale declassificato non rivela aspetti politicamente sostanziali finora ignoti, perché attesta e conferma l’ombrello geopolitico e il sostegno di intelligence forniti dagli Stati Uniti all'azione, richiesta dalla maggioranza delle forze parlamentari cilene, di sminamento di quella bomba politica, sociale ed economica che il fallimentare governo socialcomunista stava da troppo tempo facendo deflagrare nel paese e fra la popolazione.
Dai documenti emerge dunque che la CIA aiutò i patrioti cileni, mentre la menzogna consiste in quella vulgata retorica che la sinistra internazionale ci ha propinato per mezzo secolo, secondo cui l’angelico governo di Unidad Popular fu rovesciato dalla bieca destra cilena appoggiata e magari anche sobillata dall’imperialismo yankee. Se invertiamo infatti il punto di vista abituale, politicamente corretto, con cui si considera ciò che accadde in Cile l’11 settembre 1973, otteniamo un cambio radicale – storico, politico e linguistico – nell’interpretazione degli eventi. Il colpo di stato fu la defenestrazione di Allende, il quale, quando non ebbe più la maggioranza parlamentare, anziché dimettersi, era disposto perfino a scatenare una guerra civile pur di conservare il potere. Intorno all’occupazione, diciamo così, abusiva messa in atto da Allende si è costruita una colossale menzogna storica, che però, come molto spesso accade quando la macchina della propaganda marxista (vetero o neo, è indifferente) si attiva per sostenere e diffondere una tesi, viene spacciata e accolta come verità.
È vero che nell’ottobre 1970 Salvador Allende, candidato della coalizione di sinistra, divenne presidente, benché non avesse conseguito la maggioranza assoluta dei voti (ottenne il 36,6 contro il 35,3 del candidato conservatore), e la sua elezione fosse l’esito di un accordo con la Democrazia Cristiana, il cui candidato si era fermato al 28 per cento. Ma è anche vero che nei mille giorni della sua presidenza il Cile sprofondò in un baratro sociale ed economico scavato da decisioni scellerate in campo economico e sociale, geopolitico e culturale. La Democrazia Cristiana, forte partito centrista, aveva non solo sostenuto l’elezione di Allende, ma anche collaborato per un certo periodo con il suo governo, ma già dalla primavera del ’71 ne aveva visto il carattere illiberale – totalitario – e, accanto a ciò, aveva constatato il disastro a cui il Paese stava andando incontro, e aveva iniziato non solo a distanziarsene, ma anche a cercare un’alternativa parlamentare che ponesse fine allo scempio che un marxismo di stampo cubano stava imponendo all’intera società cilena.
La caduta di Allende avrebbe dovuto avvenire per via parlamentare come avvenne la sua elezione, che fu frutto di un accordo fra partiti e non di una vittoria elettorale piena, ma anziché accettare la dialettica democratica e la logica parlamentare, Allende e i suoi accoliti rifiutarono di prendere atto del loro fallimento e di rassegnare le doverose dimissioni. La loro ostinazione era frutto sia del fanatismo ideologico e del disprezzo per le regole democratiche, sia della pervicacia con cui il blocco comunista internazionale non voleva perdere la pedina cilena sullo scacchiere americano. Leninismo classico: le leggi della democrazia sono una finzione ed eventualmente uno strumento utile per conquistare il potere senza rivoluzione.
Per restare in sella, la coalizione di Unidad Popular, non potendo accampare pretesti costituzionali, si aggrappò a feroci manifestazioni di piazza e a un terrorismo massiccio che andava dalle pressioni psicologiche alle violenze personali, dai sequestri agli espropri, fino alle aggressioni sistematiche e a uccisioni non sporadiche di coloro che si opponevano a Unidad Popular o che soltanto erano sospettati di avversarla. Un terrorismo nel più bieco stile bolscevico, che colpiva soprattutto la classe media ma che si ripercuoteva sanguinosamente sull’intera cittadinanza.
La tesi allendiana era: siamo al governo dopo libere elezioni, abbiamo il consenso del proletariato e quindi possiamo restarci, a prescindere dalla situazione reale del paese e indipendentemente sia dalla volontà contraria della maggioranza parlamentare sia dall’orientamento attuale della popolazione. Dittatura pura e semplice. In un paese sconvolto da una crisi economica infernale e violenze sistematiche, il presidente in carica avrebbe avuto il dovere di dimettersi e indire nuove elezioni. Invece i demagoghi socialcomunisti cileni, beffandosi dei princìpi della democrazia ed esercitando la tirannide, invocavano la piazza e la resistenza armata per restare abbarbicati al potere. Anche qui la narrazione si scontra con la realtà: quel «pueblo unido» era soltanto il 36 per cento del popolo, il quale invece, nella sua stragrande maggioranza, dopo tre anni di sconquassi ideologici e di sofferenze economiche e sociali, voleva assolutamente cambiare pagina.
Allende dunque non vuole recedere e aizza le sue folle a occupare le strade. Tipica prassi comunista, che costituisce una sorta di colpo di stato invisibile, una scaltra mossa del cavallo, con cui mascherare la propria azione antidemocratica e, per converso, denunciare il rischio di golpe militare. E di conseguenza, quando Pinochet schiera le forze armate per eseguire la volontà della maggioranza anche parlamentare, viene marchiato con lo stigma del cannibale. Detto ciò, è ovvio che l’instaurazione di una giunta militare è sempre un espediente estremo a cui un sistema liberaldemocratico sano (ma quello cileno era appunto minato dal germe totalitario bolscevico) non deve mai ricorrere, ed è ovvio che ogni violenza ingiustificata commessa da un regime militare va condannata senza reticenze.
Ma Pinochet non sarebbe stato chiamato e non si sarebbe insediato alla guida del paese, se lo sfiduciato e parlamentarmente minoritario governo Allende si fosse dimesso, come avviene appunto normalmente nelle democrazie liberali. Al sopruso di Allende subentra l’anomalia di Pinochet. Il bombardamento della Moneda non sarebbe mai avvenuto, se Allende si fosse ritirato, anziché cercare lo scontro. E per l’affermazione della verità è fondamentale sia ricordare che Unidad Popular fu una sventura che si sviluppò in Cile ma la cui origine si trovava in Unione Sovietica e a Cuba, sia riconoscere che i partiti del centrodestra cileno, utilizzando le forze armate, evitarono al Cile di cadere nelle grinfie del comunismo e di sprofondare ancora di più nelle miserie – economiche e umane – che esso ha sempre e dovunque prodotto. Del resto, che il sistema comunista si sarebbe impossessato del paese fu chiaro fin dal novembre 1971, quando Fidel Castro arrivò in Cile per una visita ufficiale di un mese, durante la quale, osannato come un pontefice, tenne discorsi terrificanti ed espliciti: il Cile sarebbe stato la Cuba del Sudamerica.
Era infatti l’ideologia marxista a guidare l’azione di governo di Allende, non gli interessi del Cile. In un discorso parlamentare del 5 settembre 1973, Claudio Orrego, deputato democristiano, lo spiegò in modo impeccabile, mostrandone tutte le implicazioni ideologiche. La mozione per le dimissioni di Allende, presentata congiuntamente dal suo partito e dal Partito Nazionale (di destra) ovvero da due terzi dell'Assemblea, era necessaria, disse, perché «il paese è in una crisi che non ha eguali nei nostri 163 anni di storia nazionale dall’indipendenza», concludendo che «l’attuale stato di illegalità comprende ripetuti oltraggi da parte del Governo nei confronti delle risoluzioni del Congresso, contro la Magistratura, contro il Controllore Generale, contro i diritti dei cittadini, e persino, in alcune città, contro le libertà personali. Quando il paese si sta disintegrando, non c’è spazio per espedienti o politica superficiale. In questo caso dobbiamo risolvere il problema andando alla radice».
Ma questo radicalismo nell’azione non implicava necessariamente un intervento militare, perché ci sarebbero state tutte le condizioni e le modalità per dimissioni dignitose e un passaggio pacifico di potere, nelle forme della democrazia parlamentare. La soluzione proposta era inequivocabile: «La nostra mozione auspica che coloro che detengono la responsabilità di governare il Paese comprendano che è arrivato il momento definitivo in cui si prendano le misure che diano a questo Paese una soluzione pacifica e onorevole, e che porti ancora una volta la pace nelle case cilene e la prosperità a tutta la nostra nazione». E dunque «è necessario che il presidente della Repubblica opti per risolvere i problemi del Cile entro il quadro della Costituzione e della legge, come aveva solennemente giurato; è necessario che egli opti a favore delle richieste di un popolo che chiede lavoro, ordine, tranquillità, misure economiche di fondo, e che non continui a sacrificare l'economia a favore della presa totale del potere da parte di alcuni partiti; un popolo che esige, in definitiva, che ritorniamo a un minimo di istituzionalità». Questa è la verità oscurata dalla menzogna comunista.
Respingendo questa legittima, democratica e costituzionale richiesta, Allende e Unidad Popular volevano provocare una guerra civile, ed esercitavano una prassi illiberale e totalitaria, secondo la logica di aggressione tentacolare all’Occidente teorizzata dall’Unione Sovietica e più in generale dal movimento comunista internazionale. Quindi, oltre a desecretare i documenti della CIA bisognerebbe declassificare quelli del KGB, per evidenziare il ruolo attivo e funesto del Cremlino nella crisi economica, nel disastro sociale e nel tentativo di gettare il Cile in un caos senza precedenti. Se dunque la CIA aiutò i patrioti cileni, il KGB sostenne i nemici del Paese, come sempre è accaduto, dalle rivolte spartachiste in Germania al terrore instaurato dal Fronte Popolare che provocò la guerra civile spagnola, solo per fare due esempi.
Il veleno ideologico che è stato sparso nella società cilena a partire dalla sciagurata stagione di Allende è riemerso da qualche anno con virulenza tale da consentire nel 2021 la surreale e inquietante vittoria elettorale di una coalizione di sinistra radicale, che vuole esplicitamente ripetere l’esperienza di Unidad Popular. I mutati parametri internazionali – in particolare la scomparsa dell’Unione Sovietica e, specularmente, l’abbandono da parte degli Stati Uniti della dottrina Monroe – sono due fattori di cambiamento sostanziale per i paesi latinoamericani, che però sono rimasti ostaggio della violenta retorica ideologica di un marxismo adattato al nuovo secolo e al nuovo contesto geopolitico. Il milione di persone che a Santiago, inneggiando alla mitologia politica di Unidad Popular hanno assistito al concerto degli Inti Illimani il 13 dicembre 2019, sono la prova tangibile che la capacità di seduzione della sinistra è rimasta intatta, ed è per opera sua che la verità storica del 1973 cileno è stata occultata e mistificata.
Se perfino intellettuali di destra hanno uno sguardo indulgente verso criminali politici come «Che» Guevara, visti come romantici rivoluzionari, si comprende come, da un lato, la realtà latinoamericana sia per gli europei un enigma, e dall’altro lato come i travestimenti dell’ideologia socialcomunista possiedano un’efficacia che supera ogni ragionevolezza. È così infatti che Allende, il burocrate agli ordini di Cuba e di Mosca, è diventato un mito; ed è così che il Cile è ancora, in quanto polveriera marxista, un potenziale laboratorio per esperimenti comunisti.
Aggiornato il 07 settembre 2023 alle ore 09:40