Legge di Bilancio: il momento della verità

Con la stesura della Legge di Bilancio – anticipata dall’elaborazione della Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (Nadef) che il Governo dovrà presentare al Parlamento entro il prossimo 27 settembre – si comincia a fare sul serio.

Basta promesse facili, da qualsiasi parte della maggioranza esse provengano. Ciò che adesso conta è stare nei margini contenuti di uno scostamento sostenibile tra le entrate e le uscite del Bilancio pubblico. Pensare di andare in deficit eccessivo non è saggio. I controllori europei dei nostri conti non lo permetterebbero. E poi, con un debito pubblico giunto nello scorso mese di maggio al record storico di 2.817 miliardi di euro (fonte: Banca d’Italia), quale sarebbe la ricaduta di un extradeficit sulla collocazione dei Titoli di Stato sui mercati finanziari? Ieri il differenziale di rendimento tra Btp e Bund 10Y ha chiuso a 163,74 punti percentuali. Un dato accettabile se si considera la fase critica che sta attraverso il Vecchio Continente. Per mantenerlo entro i limiti di sostenibilità, il Governo Meloni, sulla manovra di bilancio, dovrà rimanere con i piedi ben saldati alla realtà. Niente voli pindarici.

Al momento, le forze della maggioranza concordano sulla priorità di rendere strutturale il taglio del cuneo fiscale deciso nell’anno in corso. Per ottenere questo risultato occorrerà creare una capienza in bilancio di almeno 12 miliardi di euro. Se a questi si aggiungono i denari necessari per i premi di produttività, la sanità, i contratti del pubblico impiego da rinnovare, le missioni internazionali da finanziare, i trasferimenti agli enti locali, un ritocco al rialzo delle pensioni minime, i maggiori costi dell’accoglienza dei migranti illegali e l’avvio dei lavori per la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, la copertura richiesta per il 2024 lievita a 30 miliardi e oltre. E dove si trovano tutti questi soldi, visto che c’è da assorbire l’impatto sui conti dei Superbonus erogati dai precedenti Governi? Di certo, non tassando ulteriormente gli italiani.

La tassazione sugli extraprofitti delle banche, se andrà in porto, sarà poco più che una goccia nel mare. Non sarà la (s)vendita dei beni dello Stato la soluzione per fare rapidamente cassa. Le privatizzazioni vanno fatte, ma nei giusti tempi e a condizione che non rechino danno agli interessi strategici dello Stato. Soprattutto, i proventi non serviranno a finanziare la spesa corrente. D’altro canto, resta improponibile il taglio della spesa sociale riguardo alle pensioni, alla sanità e all’istruzione. Il welfare è una conquista delle società avanzate regolate dalla forma democratica. Guai a intaccarlo più del consentito se non si vuole colpire la coesione sociale. Gli unici due capitoli aggredibili sono quelli della spesa corrente improduttiva e delle spese fiscali (tax expenditures).

Sulla cosiddetta spending review bisogna fare una riflessione seria. Se ne parla da anni e mai finora si è riusciti a ottenere un risultato soddisfacente. Nelle pieghe dei capitoli di spesa della Pubblica amministrazione si annida, ben occultato, l’esprit de finess dello strapotere della burocrazia secondo il quale se la razionalità non riesce a giustificare il senso di un sistema opprimente, si ricorre all’irrazionale per darne una spiegazione plausibile. È ciò che accade con la macchina burocratica divoratrice di risorse infinite volte a perpetuare il suo potere sulla società sottostante. Non è possibile che ogni qualvolta si accenni all’eventualità di operare qualche taglio di spesa, i tifosi dello “Stato ovunque e comunque” tirino fuori la storiella che vi sarebbero meno poliziotti, meno medici e infermieri e meno pompieri da pagare per la nostra sicurezza. Nella pianta organica della Pubblica amministrazione, estesa alle sue diramazioni periferiche e agli Enti locali, vi è una moltitudine di persone che rendono poco o nulla rispetto allo stipendio che ricevono, non perché siano dei fannulloni ma perché sono assegnati al funzionamento di uffici ed enti del tutto inutili.

Il Governo Meloni vuole fare sul serio con il taglio della spesa pubblica, cioè andare oltre lo striminzito taglio alla spesa di 1,5 miliardi di euro previsto dal Mef per il prossimo anno? Allora assuma l’impegno di eliminare concretamente gli sprechi e i costi improduttivi, senza guardare in faccia a nessuno. Le previsioni di spesa a Bilancio per il 2023 sono state di 892 miliardi 604 milioni di euro, di cui 652 miliardi 426 milioni di spesa corrente; 81 miliardi 106 milioni per interessi; 159 miliardi 73 milioni in conto capitale (fonte: Mef). Possibile che con una cifra tanto ampia a disposizione non ci si arrischia a limare qualche spesa non necessaria? Difficile crederlo.

Il secondo nodo aggredibile è quello delle spese fiscali (tax expenditures). Si tratta di esclusione o di esenzione o riduzione dell’imponibile o dell’imposta o di regime di favore che non rispondono a esigenze di fondo, o strutturali, dell’ordinamento (F. Osculati). Nel Bilancio corrente se ne contano in numero di 626. La loro presenza determina una perdita di gettito per l’erario superiore agli 80 miliardi di euro. Non tutte sono utili e non tutte rispondono alla tutela del superiore interesse pubblico. In realtà, sono la testimonianza vivente di una strutturazione corporativa della società che ha radici antiche nella mentalità degli italiani e del loro rapportarsi allo Stato. Bisognerebbe sfoltire l’elenco, benché una tale opera di bonifica vada a toccare macro e micro interessi verso i quali la politica ha tenuto da sempre – e a qualsiasi latitudine – comportamenti protettivi. Il Governo Meloni non sembra fare eccezione se è vero che, posto il problema della revisione, ha risposto che il “riordino delle tax expenditures può essere compiutamente definito solo all’interno di un più ampio e organico disegno di riforma fiscale”. Perché aspettare, quando si è scelta la strada della riduzione fiscale generalizzata per rilanciare lo sviluppo economico della nazione? È un problema di vasi comunicanti. E di logica. Se si vogliono tagliare le tasse, coerentemente devono essere rivisti i benefici concessi, non fosse altro perché quei benefici, in alcuni casi, non hanno raggiunto i destinatari per i quali erano stati concepiti.

Franco Osculati – professore ordinario F.R. di Scienza delle finanze presso l’Università di Pavia – in un articolo pubblicato sul sito dell’Ipsoa ha citato alcune voci di spesa fiscale per dimostrarne l’astrusità, figlia di una cervellotica rappresentazione dei metodi di tutela di interessi parcellizzati, talvolta della grandezza dell’atomo. È il caso della spesa numero 36 che reca “Determinazione forfetaria dell’accisa sull’alcool etilico prodotto da piccoli alambicchi”. Se la si taglia si rischia la rivolta sociale, perché chi non ha in casa un alambicco per la grappa fai-da-te? Sarebbe da ridere se non ci fosse da rabbrividire. E che dire della spesa numero 26: “Applicazione dell’aliquota Iva ridotta del 5% ai tartufi freschi o refrigerati e l’applicazione dell’aliquota Iva ridotta del 10% ai tartufi congelati, essiccati o preservati immersi in acqua salata, solforata o addizionata di altre sostanze atte ad assicurare temporaneamente la conservazione, ma non preparati per il consumo immediato”? Allo scopo di perseguire il più alto obiettivo del taglio del cuneo fiscale in una congiuntura economica segnata dall’inflazione, si può ben chiedere agli estimatori del tartufo, che si presume non siano proprio degli spiantati, un piccolo sacrificio sul maggior costo dell’Iva. Suvvia, sono tartufi, non pannolini e latte in polvere per neonati.

Con il rallentamento delle economie trainanti, quali la Germania e la Cina, inevitabilmente anche le previsioni di crescita del nostro Prodotto interno lordo devono essere riviste al ribasso rispetto alle stime iniziali. Il Mef ha fatto sapere che il tendenziale di crescita fissato allo 0,9 per cento per il 2023 e all’1,4 per cento per il 2024 dovrebbe essere un obiettivo ancora pienamente alla portata. Anche se così fosse – e ce lo auguriamo – uno zero virgola non offre spazi di manovra sufficienti per coprire finanziariamente gli interventi necessari.

Ora, se il meccanismo delle spese fiscali è dimostrato sottragga gettito per 128,6 miliardi di cui 83,2 miliardi all’erario, 45,4 miliardi alla fiscalità locale, incidendo complessivamente per il 6,8 per cento sul Pil, è lì che i denari vanno cercati e presi per fare ciò che serve per tenere in linea i conti pubblici. Abbiamo un Governo di centrodestra e vorremmo tenercelo caro per tutta la legislatura. Ragione per la quale se tagli vanno operati, facciamoli da noi senza aspettare che ce lo imponga qualche cervellone da Bruxelles. Già, Bruxelles. Lo sappiamo benissimo che da quelle parti non aspettano altro che segare il ramo su cui è appollaiata la Meloni in attesa dei tempi migliori attesi per il 2024, quando in Europa si tornerà a votare. Non forniamogli su un piatto d’argento la possibilità di mettere la mordacchia al nostro Governo, proprio ora che c’è da discutere della revisione del Patto di stabilità all’interno dell’Unione. Non diamogliela questa soddisfazione.

Aggiornato il 20 giugno 2024 alle ore 13:54