Essere liberali, semplicemente liberali, spesso porta ad assumere posizioni sconvenienti, specie se rapportate al senso comune ben radicato in ampi strati sociali. D’altronde, asserire la propria avversione nei confronti di un maggiore prelievo fiscale da applicare alle banche, oppure rimarcare un rifiuto netto contro la calmierazione dei prezzi dei biglietti aerei o, ancora, sottolineare le varie incongruenze derivanti dall’approvazione di un eventuale salario minimo (qualunque sia il suo valore), è un atteggiamento che certamente non porta particolari simpatie da parte dell’elettorato del tutto e subito (sebbene a spese di altri).
Quando si decide di intervenire a gamba tesa nei meccanismi che regolano il libero mercato, bisogna sempre soppesare gli eventuali e immediati vantaggi ottenuti con le esternalità negative che tali scelte, prima o poi, comunque faranno emergere. Nel caso dei biglietti aerei, ad esempio, credo che si confonda il legittimo e umanissimo desiderio di viaggiare e di andare in vacanza con il sacrosanto e costituzionale diritto alla mobilità. Ecco, desideri e diritti non sono la stessa cosa. Entrambi dovrebbero essere rapportati al concetto di necessità. Andare in vacanza non è necessario – aggiungo che si può raggiungere anche una meta più vicina – recarsi al lavoro, sì.
Dirlo, però, suscita malumori. Soprattutto a ridosso di Ferragosto e dopo mesi passati a sgobbare sopra le “sudate carte”. Essere liberali vuol dire affrontare ogni singola situazione nella sua complessità, analizzando le pagine chiare e le pagine scure, facendosi guidare dal dubbio e da un agire decisamente pragmatico. Ergo, l’ideologia nemmeno in dosi omeopatiche. In quanto, come già osservato in numerosi casi, diviene letale perfino mediante un piccolo quantitativo.
Aggiornato il 11 agosto 2023 alle ore 09:48