Delega fiscale: il coraggio di una riforma

Il centrodestra chiude in bellezza il (quasi) primo anno di lavoro da maggioranza di governo, prima della pausa agostana.

L’approvazione in via definitiva della legge che reca la delega fiscale è senz’altro un successo della coalizione che sostiene il Governo Meloni. Si tratta di una riforma coraggiosa, che interviene a modificare in positivo il rapporto tra il Fisco e il cittadino. Certo, non bisogna indulgere in facili entusiasmi. Non è che all’improvviso il Fisco diventi amico del cittadino ma, come ha ironicamente chiosato un noto esperto di economia, accontentiamoci che sia almeno un buon conoscente.

Di là dalle battute, è un fatto che adesso esista una cornice giuridica ben definita entro la quale costruire la riforma d’impianto di un sistema tributario sopravvissuto, pressoché inalterato, dall’ultima riforma organica risalente all’ottobre 1971. Sia chiaro: oggi non cambia nulla per il cittadino. La vera sfida per il Governo sarà nella realizzazione dei Decreti attuativi per varare i quali la legge gli assegna 24 mesi di tempo. Ciò non significa che il Governo dovrà attendere l’ultimo giorno utile del ventiquattresimo mese per far scattare l’entrata in vigore delle disposizioni che concretamente porteranno alla riforma dello strumento fiscale.

L’opinione pubblica reclama che si faccia presto, a maggior ragione se i risultati attesi dalla ristrutturazione dell’apparato normativo che disciplina la materia saranno quelli auspicati da Giorgia Meloni nella dichiarazione rilasciata a commento dell’esito della votazione parlamentare. E cioè: “Una riforma strutturale e organica, che incarna una chiara visione di sviluppo e crescita e che l’Italia aspettava da cinquant’anni. Meno tasse su famiglie e imprese, un fisco più giusto e più equo, più soldi in busta paga e tasse più basse per chi assume e investe in Italia, procedimenti più semplici e veloci”.

Cosa prevede il piano di riforma? Riassumiamo per sommi capi, saltando alcuni passaggi. Le aliquote Irpef verranno accorpate in sole tre fasce di reddito. Non è la Flat tax, che resta un puntino posto sull’orizzonte della legislatura, ma è una convinta conversione allo spirito della semplificazione del regime fiscale, soprattutto se accompagnata dal riordino delle deduzioni dalla base imponibile, degli scaglioni di reddito, delle detrazioni dall’imposta lorda e dei crediti d’imposta. Se Matteo Salvini non avrà fatto i salti di gioia per essersi vista rinviare sine die la proposta bandiera della Lega: la tassa piatta, di certo avrà apprezzato il gesto cavalleresco dell’alleato Fratelli d’Italia che dal cavallo di battaglia della Flat tax incrementale – peraltro già introdotta con l’ultima Legge di Bilancio (L. 29 dicembre 2022 numero 197) – ha virato in direzione dell’applicazione di una tassazione agevolata su straordinari, tredicesima e premi di produttività, a beneficio dei lavoratori dipendenti.

Riguardo al regime dell’Iva, in vista di un adeguamento ai criteri fissati dall’Unione europea, la legge prevede una significativa razionalizzazione delle aliquote, senza però che questa si traduca in un incremento complessivo della tassazione indiretta su beni e servizi. La delega contiene l’indicazione del superamento graduale dell’imposta regionale sulle attività produttive (Irap). Sul punto abbiamo un solo sentito commento da fare: Alleluia! Per i lavoratori autonomi è prevista una migliore distribuzione temporale del carico fiscale, che è cosa buona e giusta smetterla di strangolare il contribuente con l’ingorgo delle scadenze. La legge apre alla possibilità dell’introduzione della cedolare secca per le locazioni commerciali, a condizione che la misura spinga verso un contenimento dei canoni a carico dei conduttori. Ma tra gli assi portanti del progetto di riforma vi è senza dubbio il rafforzamento dell’istituto della “cooperative compliancenonché l’introduzione di strumenti volontari di concordato preventivo. Si tratta del modo più sensato ed efficiente per lasciare che la produzione corra senza essere intralciata dall’invasività dello Stato. Per la sinistra, tale provvedimento rappresenta plasticamente la bandiera ammainata dallo Stato nell’eterna guerra agli evasori. Non c’è nulla da fare, per le anime belle del progressismo gli imprenditori – a meno che non siano amici loro – sono per definizione evasori, quindi tenerli costantemente sotto tiro è un dovere prepolitico di uno Sato-Leviatanometus fundamentum regnorum – che affonda le radici nelle categorie dell’Etica, ancor prima che nelle norme del Diritto. Eppure, nel documento di conclusione dell’Indagine conoscitiva sulla riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e altri aspetti del sistema tributario, della Commissione Finanze e Tesoro del Senato (2021), è scritto: lo Stato deve allontanare ogni tendenza a considerare il contribuente un “evasore che ancora non è stato scoperto”. Ma alla sinistra proprio non va giù l’idea che lo Stato possa accettare che l’imprenditore formuli una previsione biennale sulla propria base imponibile concordando con l’Amministrazione finanziaria l’adempimento spontaneo degli obblighi tributari e che questa, in cambio, s’impegni a non effettuare accertamenti per il periodo negoziato. Per non dire dell’innalzamento dello Statuto dei Diritti del Contribuente al rango di legge generale tributaria, previsto in Legge-delega.

La verità è che, riguardo al rapporto tra cittadino e Fisco, siamo al cospetto di una mutazione culturale la quale segna una linea di faglia insanabile tra una visione liberale dello Stato e un’altra che semplicemente non lo è. Cosa se ne ricava? Una lezione che le classi dirigenti del centrodestra non dovrebbero dimenticare. La scelta, fatta in passato, di dare vita a forme di governo consociative in nome di un imprecisato “bene del Paese” ed eufemisticamente denominate “Governo di unità/responsabilità nazionale”, in cui gli opposti si sono mescolati, è stato un male.

Diversamente, i Governi di coalizione, fisiologici in democrazia perché resi omogenei da un’affinità ideologica di massima, devono poggiare su una nitida base politico-programmatica, nettamente distinta da quella dell’opposizione. Solo così è possibile assicurare al Paese un progetto riformatore che abbia un senso logico compiuto e che non sia l’esito di un continuo compromesso al ribasso. La gente deve essere messa nelle condizioni di scegliere da chi essere governata ma, principalmente, ha il diritto di valutare i frutti dell’azione del Governo che ha votato. È la ragione per la quale l’Esecutivo Meloni gode di ottima salute presso l’elettorato nel mentre altre formazioni partitiche – il Terzo Polo – nate con l’intento dichiarato di posizionarsi al centro per essere ago della bilancia in deprecabili giochi di Palazzo, stanno miseramente fallendo.

La legge sulla delega fiscale contiene una visione che non piace alla sinistra. In compenso, piace ai partiti che, in coalizione, hanno ricevuto dalla maggioranza degli elettori il mandato a governare. Se la regola democratica ha un senso, i progressisti devono farsene una ragione. Non basta proclamarsi i migliori per decidere i destini della nazione. Occorre essere i più numerosi in Parlamento e nel Paese. Ascoltare tutti è importante per un Governo che si pone l’obiettivo di tenere unita la società restando rigorosamente all’interno del perimetro tracciato dalla norma costituzionale.

Tuttavia, ciò per la maggioranza non può voler dire elevare l’immobilismo politico a sistema, facendosi bersaglio dei veti incrociati dei partiti avversari, dei gruppi d’interesse e dei corpi intermedi che vorrebbero condizionarne l’azione a proprio vantaggio. Si prenda il caso della Cgil, la voce numericamente più rappresentativa del panorama sindacale italiano. Cosa autorizza il suo capo, Maurizio Landini, ad affermare che “pensare che avendo vinto le elezioni uno può fare ciò che vuole senza alcuna mediazione sociale, non è democrazia”? È vero il contrario. Chi vince ha il dovere verso chi lo ha eletto di fare ciò che ha promesso in campagna elettorale. La riforma fiscale era nel programma del centrodestra. E da nessuna parte era scritto che, in caso di vittoria – che c’è stata – la sua realizzazione sarebbe stata assoggettata al gradimento del leader della Cgil.

In un discorso alla Camera dei Comuni nel novembre 1947, Winston Churchill affermò testualmente: “È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. Non aveva torto, la forma democratica è la più ostica perché a praticarla seriamente è richiesto grande coraggio. Non abbiamo la sfera di cristallo per conoscere il futuro di questo Governo e di questa maggioranza. Sappiamo solo che approvando questa Legge-delega sulla materia fiscale, Giorgia Meloni e soci hanno mostrato grandissimo coraggio. Ora non resta altro da fare che portarla fino in fondo, fino alla sua piena applicazione. Prosit!

Aggiornato il 08 agosto 2023 alle ore 09:18