In una trasmissione televisiva di alcune settimane fa, dedicata al vertice Nato di Vilnius che si sarebbe tenuto di lì a poco, una nota esperta di relazioni internazionali – molto ascoltata dalla sinistra nostrana – alla domanda del conduttore sull’intenzione della presidente Giorgia Meloni di portare all’attenzione degli alleati la questione dell’Africa, rispose con tono stentoreo: è fuori tema.
In tale risposta si condensa tutta l’incapacità del mondo progressista italiano di decrittare i codici attraverso cui la complessità del reale si rende comprensibile alla cognizione dell’umano. La Meloni lo ha capito: per la politica estera dell’Italia il primo problema è l’Africa. Gli accadimenti di queste ore lo confermano drammaticamente. Mentre la sinistra si balocca con l’irresponsabile tentativo – totalmente velleitario – di gettare il Paese nel caos a causa della parziale abolizione del Reddito di cittadinanza, c’è una guerra che sta per scoppiarci in faccia proprio sull’uscio di casa.
Lo scorso 28 luglio il generale Abdourahamane Tchiani, ha preso il potere in Niger, dopo aver deposto con un golpe militare il presidente Mohamed Bazoum, democraticamente eletto il 2 aprile 2021. Tchiani, nell’assumere la presidenza del Consiglio nazionale per la Salvaguardia della Patria (Cnsp), ha giustificato il putsch con l’incapacità del deposto presidente di fronteggiare in modo adeguato la crisi economica che sta devastando il Paese e di arginare il deterioramento della situazione della sicurezza sottoposta alla violenza dei gruppi jihadisti. Il Niger, Stato africano della fascia del Sahel, benché classificato tra i più poveri del mondo (25.396.840 abitanti nel 2023 – Pil 2022 13.97 miliardi usd – Pil pro capite 2022: 507.71 usd – nel 2016, ultimo Paese al mondo secondo l’indice di sviluppo umano) ha un sottosuolo ricco di metalli preziosi e di terre rare nonché di uranio. Ex colonia francese, è rimasto sotto la diretta influenza di Parigi fin dal 1960, anno dell’ottenimento dell’indipendenza. Perché le sorti del Paese africano riguardano così da vicino l’Italia? Per molteplici motivi. Il primo è che il Niger costituisce il principale crocevia delle rotte dei migranti dal centro e dall’ovest dell’Africa verso la Libia, l’Algeria e la Tunisia e da lì verso le nostre coste. Non vi è alcuna speranza di fermare il traffico di esseri umani se non si consolida una collaborazione efficace con le autorità nigerine. Il secondo è che le ricchezze presenti nel sottosuolo interessano anche all’apparato produttivo italiano, e non soltanto a quello francese che finora ne ha disposto a proprio beneficio. Per inciso, la Francia oggi acquista a prezzi di favore l’uranio dal Niger per alimentare la propria produzione di nucleare, dopo averlo prelevato gratuitamente fino al 2014. Il terzo è che negli ultimi anni, nella regione africana del Sahel, è in corso un processo di sostituzione dei poteri d’influenza, da quelli occidentali – in primis Stati Uniti e Francia – a quelli orientali, in testa Federazione Russa e Cina. Ed è Mosca, che ha dato mano libera alla compagnia mercenaria privata Wagner di infiltrarsi nel Sahel, a essere la principale sospettata riguardo ai mandanti occulti del golpe. Ufficialmente, non vi sono riscontri all’ipotesi che dietro il colpo di mano del generale Tchiani vi sia Vladimir Putin, tuttavia un collegamento tra ciò che sta accadendo in Niger e la volontà più volte manifestata dal Cremlino di portare il fronte del conflitto oltre il teatro ucraino, è fondato, nonostante le dichiarazioni provenienti da Mosca circa il sostegno del Governo russo al deposto presidente Bazoum. Il quarto è che il Governo Meloni ha puntato tutte le sue carte, per risolvere l’affrancamento energetico dell’Italia dalle forniture russe, sulla costruzione di pipeline che dalle aree di sfruttamento minerario dell’Africa occidentale, in particolare dalla Nigeria, portino il gas e il petrolio alla costa libica e da lì, attraverso le condotte sottomarine, a quella italiana.
Uno scivolamento del Niger nell’area di influenza russa, come già accaduto nelle realtà confinanti del Mali, Guinea e Burkina Faso, avrebbe come immediata conseguenza l’interruzione del piano strategico per l’autonomia energetica del nostro Paese, con conseguenze gravissime per il sistema produttivo nazionale. Il quinto è che una rottura con Niamey manderebbe a carte quarantotto l’ambizioso “Piano Mattei”, varato dal Governo Meloni per restituire centralità all’Italia nel contesto del Mediterraneo allargato. Il sesto è che nel Paese africano vi sono al momento 300 nostri militari impegnati nell’ambito della “Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger – Misin”, volta, tra gli altri compiti, ad addestrare e a dare assistenza, supporto e mentoring alle forze di sicurezza e alle istituzioni governative nigerine.
Tutte queste ragioni richiedono che il Governo prenda molto sul serio ciò che sta accadendo tra le sabbie del Sahara. Al momento, la situazione è fluida. Pendono sul governo golpista gli ultimatum dell’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale) che minaccia di isolare finanziariamente il Niger e dell’Unione africana, presieduta dal comoriano Azali Assoumani, che ha intimato ai ribelli di ripristinare l’ordine democratico violato e di restituire al deposto presidente Bazoum le prerogative presidenziali. Nel caso di mancato ottemperamento dell’ordine ricevuto, il vertice dell’Unione africana, al pari dell’Ecowas, ha minacciato l’intervento armato. Intervento dal quale, però, si sono immediatamente dissociati i governi del Mali, della Guinea e del Burkina Faso, pronti a scendere in campo per difendere i golpisti nigerini. In caso di guerra non vi è dubbio che Stati Uniti e Francia sosterrebbero attivamente la forza multinazionale africana contro i rivoltosi, così formalizzando l’apertura di un ulteriore fronte di guerra che si andrebbe a sommare a quello ucraino.
Ci si domanderà: cosa può fare l’Italia in una situazione tanto complicata? Moltissimo. Cominciamo però col dire ciò che non dovrebbe fare. Non dovrebbe questa volta mettersi in scia acriticamente a ciò che decideranno le potenze occidentali coinvolte, in particolare la Francia. Il Niger non è l’Ucraina. Qui non c’è un invasore che impone alle coscienze libere e democratiche dell’Occidente di reagire. Al contrario, c’è una responsabilità diretta di Parigi che, in quella terra, non ha fatto sempre le cose giuste. Se così non fosse, nella spoglia landa desertica non avrebbe preso piede il “Movimento M62” che al primo punto della propria piattaforma politica pone la cacciata dei militari stranieri dal Paese e la fine dell’influenza francese.
Mai come ora l’Italia deve mettere davanti a tutto la difesa dei propri interessi nazionali. Abbiamo clamorosamente fallato in Libia nel 2011 e ne abbiamo dolorosamente pagato le conseguenze. Cerchiamo di non rifare il medesimo errore. Prima di appoggiare qualsiasi soluzione militare, è necessario procedere con il dialogo. Bene ha fatto il nostro ministero degli Esteri a lasciare aperta l’ambasciata a Niamey. Anche sulla decisione di irrogare sanzioni a scopo punitivo e bloccare gli aiuti economici e militari è bene essere cauti perché un eccessivo irrigidimento del blocco occidentale finirebbe inevitabilmente col consegnare il Niger alle attenzioni interessate della Russia e della Cina. Prima di muoversi è necessario anche chiarire il ruolo ambiguo della Turchia che, in modo più o meno silente, sta espandendo la sua influenza su zone strategiche del continente africano. D’altro canto, fidarsi dell’autocrate turco Recep Tayyip Erdogan equivale a un suicidio geopolitico. Se abbiamo ben compreso, il “Piano Mattei” prevede innanzitutto una fase di ascolto delle istanze che emergono dalle popolazioni africane coinvolte nel Piano.
Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani comincino con l’ascoltare le ragioni dei golpisti prima di sottoscrivere ultimatum e minacce che ci si ritorcerebbero contro. Come italiani ci siamo ritrovati tra capo e collo una questione ucraina che non potevamo permetterci il lusso di gestire come la stiamo gestendo. Una Ucraina africana ci travolgerebbe. Non possono essere un Emmanuel Macron e neppure un Joe Biden – non se ne abbia la presidente Meloni – a dettarci la linea. Nel quadrante del Mediterraneo allargato, riguardo alle regioni africane del Maghreb e del Sahel dovremmo essere noi in grado di spiegare agli altri cosa fare. E non il contrario. Se la filosofia che sostiene il “Piano Mattei” ha un senso, questo è il momento di dimostrarlo. È vero che siamo in agosto e che le ferie incombono, ma una puntata a Niamey del ministro della Difesa Guido Crosetto, magari col pretesto di una visita di routine al contingente italiano lì dispiegato, per prendere visione diretta della situazione non sarebbe una cattiva idea.
Aggiornato il 07 agosto 2023 alle ore 09:27