In difesa di Carlo Nordio

Carlo Nordio, il ministro liberale della Giustizia, non ha bisogno di essere difeso. Si difende benissimo da solo, avendone il coraggio e le qualità. A prescindere dai suoi meriti in generale, qui scrivo questa breve nota per rimarcare la sua intervista di ieri al Corriere della Sera. Non c’è una sola parola che un liberale, ma non solo, non potrebbe non condividere. Tutto è argomentato. Tutto è inoppugnabile. Nondimeno viene attaccato dal suo stesso Governo come se fosse un guastatore, come se fosse un fastidioso cacciatore di pretesti per litigare con i suoi ex colleghi, che forse lo criticano meno di certi suoi colleghi ministeriali.

Questa intervista, che invito a leggere, è tra l’altro la prova della malafede dei suoi interlocutori di opposizione, i quali, per quanto comprensibilmente per il loro ruolo, non fanno che travisare il suo pensiero in maniera così smaccata da squalificare le critiche. Non è Nordio in guerra con la magistratura, sono certi suoi oppositori di maggioranza e di opposizione che lo dipingono con l’elmetto per farne il bersaglio di risentimenti e odi che nulla hanno a che vedere con la riforma della giustizia. Perché mai un pubblico ministero indipendente dalla politica ma pure dai suoi colleghi, sindacalizzati e no, dovrebbe essere pericoloso per la democrazia? Perché mai non si deve discutere della configurazione di un reato che lascia perplessi i giuristi e la logica? Accusare Nordio di essere tiepido verso la criminalità organizzata fino al fiancheggiamento obliquo della mafia sol perché vuole formalizzare (“espressamente” dice l’articolo 1 del Codice penale) una fattispecie che, dice lui, pare un ossimoro?

Le rampogne a Nordio di certi quaquaraquà sono basate su pretesti per giunta mal digeriti. Sicché viene da concludere: “La riforma della giustizia è necessaria per l’Italia oppure solo utile per dialettica politica?”.

Caro e stimato ministro Nordio, chi non vuol capire non capirà mai. Perciò non perda tempo. Faccia ciò che deve anche se politicamente cercano di dissuaderla che non può. Soprattutto, non si dimetta mai. Le dimissioni sono una sconfitta. Se tuttavia dovesse lasciare perché cacciato (capitò al suo predecessore Filippo Mancuso), lanci agli avversari della giustizia giusta l’espressione di Cambronne all’intimazione di resa a Waterloo.

Aggiornato il 17 luglio 2023 alle ore 09:58