Il poeta Ezra Pound, ispiratore di generazioni di giovani di Destra, era noto, oltre che per le sue opere e per il suo iperbolico pensiero economico, anche per un aforisma la cui attualità lambisce i confini dell’odierna cronaca politica. Scrisse Pound: “Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui.

Il Governo e la maggioranza di centrodestra, nell’affrontare in Parlamento il tema della riforma (minima) della Giustizia, dovrebbero ricordarsi del monito del poeta. E farne tesoro. Vi domanderete il perché di questo richiamo. È presto detto. Si rileva una sospetta contemporaneità di azioni giudiziarie che hanno riguardato esponenti del centrodestra o loro famigliari e la divulgazione di documenti dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) nei quali, a proposito della riforma in via di approvazione, si legge: “Intervenire nel dibattito che, fisiologicamente, precede e accompagna ogni proposta di riforma legislativa capace di incidere proprio sui diritti e sulle libertà è un dovere dell’Associazione nazionale magistrati. Lungi dall’essere un’interferenza è la pretesa di essere ascoltati perché portatori di conoscenze ed esperienze proprie del nostro ruolo”.

Coincidenze? Le critiche che i giudici sollevano al progetto di riforma targato centrodestra sono a tutto campo. Dall’abolizione del reato di abuso d’ufficio, al contenimento degli abusi in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni di persone soggette a indagine, alla riconfigurazione dell’istituto dell’interrogatorio preventivo rispetto all’eventuale applicazione della misura cautelare, al contenuto e alle modalità di comunicazione dell’avviso di garanzia, all’inappellabilità da parte del pm delle sentenze di proscioglimento per alcuni reati di non particolare gravità, gli associati all’Anm sono contrari a tutto.

Fin qui nulla di strano, se non fosse che a destra si teme più del dovuto la reazione dell’Ordine giudiziario, o almeno di una parte di esso, a una riforma che, nell’interpretazione dei suoi critici, porterebbe a una sostanziale perdita di peso del potere degli organismi inquirenti nella conduzione del procedimento penale. Il Governo non ci sta, ma reagisce in modo inconsueto. Una “velina” proveniente da cosiddette fonti anonime di Palazzo Chigi ipotizza una “discesa in campo” di una parte della magistratura in opposizione all’attuale maggioranza parlamentare. L’oggetto del risentimento dei vertici governativi riguarda le note vicende della ministra Daniela Santanchè e del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, entrambi appartenenti al partito del premier, Giorgia Meloni. In ordine alla decisione del gip di Roma che ha disposto l’imputazione coatta per Delmastro, indagato per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione al caso Cospito, nonostante la richiesta di archiviazione dell’accusa, si legge nella nota che “non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione” e il gip invece “imponga che si avvii il giudizio”. Riguardo alla posizione di Santanchè, indagata per falso in bilancio e bancarotta, la nota rileva che in un procedimento in cui gli atti sono segretati è fuori legge che si apprenda di essere indagati dai giornali, curiosamente nel giorno dell’informativa in Parlamento, “dopo aver chiesto informazioni all’autorità giudiziaria”.

Da ciò l’anonimo amanuense di Palazzo Chigi conclude con un punto di domanda prossimo a un’affermazione assertiva: è lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione e abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee. Se non è la denuncia di un complotto, le somiglia parecchio.

Ora, non siamo in grado di dirvi con certezza assoluta se l’ipotesi dell’intenzionalità dell’azione giudiziaria per intimorire il Governo e farlo tornare sui suoi passi abbia o meno fondamento. E, francamente, non interessa granché scoprirlo. Ciò che invece conta sopra ogni cosa è capire se c’è la volontà di tutto il centrodestra di rispettare l’impegno preso in campagna elettorale di riformare la Giustizia per renderla più equa. Ma ammettiamo, per assurdo, che la “velina” dica il vero, che il complotto ci sia, e ci sia pure l’attacco della magistratura a una parte della classe politica. E quindi? Che si fa? Si arretra com’è stato fatto finora o si va avanti, costi quel che costi? Il ministro Carlo Nordio non ha usato mezze misure: “Nessuno vuole impedire alla magistratura di commentare le leggi sotto il profilo tecnico. La colpa della politica è stata quella di aderire o meglio inchinarsi alla magistratura senza dire noi ascoltiamo le vostre opinioni ma alla fine decidiamo noi e solo noi perché abbiamo un mandato che secondo la Costituzione deriva dal popolo”.

Ha ragione da vendere Nordio, l’opposizione di alcuni pezzi della magistratura alla riforma non deve costituire l’alibi dietro cui trincerarsi per non fare nulla. Se si crede nel proprio progetto, non esiste atto intimidatorio che possa fermare il cambiamento. È questione di credibilità di un Governo e di una maggioranza politica agli occhi dei propri elettori. La battaglia per riformare la Giustizia va oltre le mere questioni tecniche del processo penale. Riguarda una controriforma della vigente “cultura della giurisdizione” che il nostro Paese deve operare per entrare nella contemporaneità dell’Occidente del Terzo millennio.

La tracimazione del potere giudiziario, dai tempi di Tangentopoli, si è sostanziato nell’idea che toccasse ai giudici riorientare la postura che il cittadino deve assumere nelle sue interazioni interpersonali e con la macchina dello Stato. Non ci spingiamo a dire, come ha fatto Pigi Battista in un’intervista concessa a Il Giornale l’altro giorno, che i magistrati si ergono a guardiani della legalità, sono una sorta di polizia morale. Perché non siamo in Iran, né in Afghanistan.

Purtuttavia, non possiamo dimenticare che proprio con la vicenda di Tangentopoli si giunse a preconizzare per il magistrato un ruolo di custode dell’etica repubblicana. L’effetto speculare, che lo straripamento del potere giudiziario ha comportato nel costume politico della sinistra, la quale fin dall’inizio ha cavalcato l’onda di quell’indebito sconfinamento, è stato lo scivolamento verso forme sempre coercitive della libertà dell’individuo. Fino all’oggi, nel quale assistiamo all’intolleranza prevaricatrice dei progressisti alla Elly Schlein verso tutte le espressioni di pensiero diverso o eterodosso rispetto agli standard fissati dai fautori del politically correct. Quegli stessi standard che hanno procurato al ministro dello sport, Andrea Abodi, il marchio d’infamia dell’omofobia per aver detto, riguardo al coming out di un noto calciatore straniero che si appresta a militare nel nostro massimo campionato, di non amare l’ostentazione.

Ci preoccupano alcune indiscrezioni apparse su noti quotidiani secondo cui il Governo si preparerebbe a depotenziare la riforma in discussione per placare l’ostilità della magistratura. E in questa retromarcia l’inquilino del Colle avrebbe un ruolo decisivo. L’auspicio è che non sia vero; che sia un ballon d’essai buttato al centro del campo – per dirla con Enzo Jannacci – per vedere l’effetto che fa. Se così non fosse, sarebbe tremendo scoprire che il Governo Meloni, sul quale la maggioranza degli italiani ha riposto le proprie speranze per un futuro migliore, non abbia la necessaria tempra morale e ideale per portare a compimento, in tema di Giustizia, la riforma promessa.

Gli eventi di questi giorni ci riportano alla mente un episodio accaduto all’indomani della vittoria elettorale del centrodestra. Fervevano le trattative tra i partiti della coalizione in vista della formazione del Governo. In una “panoramica” sull’Aula del Senato, una maliziosa telecamera zumava su un foglio di carta annotato a penna che il senatore Silvio Berlusconi strapazzava nervosamente tra le mani. Il contenuto dello scritto era esplosivo. Si elencavano alcuni tratti caratteriali di Giorgia Meloni, premier in pectore del nascente Governo di centrodestra, non propriamente lusinghieri. Interrogata dai giornalisti sull’accaduto, Meloni ebbe una reazione molto ferma, che dava la cifra di quella che sarebbe stata la sua condotta di Governo. Rispose: “Ne manca una, che non sono ricattabile”. Tosta ed efficace come battuta.

Tuttavia, per una qualche bizzarria del destino oggi quella risposta è messa alla prova. Presidente Meloni, non deluda il suo popolo. Non si faccia ricattare da chicchessia e vada fino in fondo con la riforma della Giustizia. L’Italia gliene sarà grata.

Aggiornato il 12 luglio 2023 alle ore 10:02