Se Parigi piange, Roma non deve ridere

C’è un filo rosso che lega gli avvenimenti francesi di queste ore alla politica migratoria praticata dal Governo Meloni. La Francia è messa a ferro e fuoco da giovani di vicine e lontane origini nordafricane e di altri Paesi del Terzo e Quarto mondo.

Il sociologismo postsessantottino, utilizzato dai progressisti per spiegare la violenza dei figli e dei nipoti degli immigrati in Francia negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, non regge più. In realtà, non ha mai retto. La narrazione dei poveri diseredati che si ribellano ai soprusi della società capitalistica – un mesto ritornello che ci ha assordato per decenni – è una leggenda metropolitana sbugiardata. La verità è che tutti i tentativi di integrazione che Parigi ha messo in campo nel passato sono miseramente falliti.

Nel Paese transalpino le modalità d’immigrazione di masse d’individui – prevalentemente provenienti dalle ex-colonie – hanno comportato la ricomposizione sul suolo francese di comunità etniche in tutto speculari ai contesti sociali di appartenenza. Ciò ha consentito la sopravvivenza, nell’ambito di una società evoluta e democraticamente matura quale quella francese, di culture, scale valoriali e tradizioni tenute insieme dal collante dell’odio anti-occidentale. L’impermeabilità al cambiamento di tali nuclei, sempre più numerosi e autoreferenziali, ha generato il senso di estraneità mescolato a un profondo risentimento etnico-religioso che i giovani rivoltosi di oggi manifestano, da cittadini, contro il Paese che ha accolto i loro genitori e i loro progenitori. Per costoro, lo Stato è il nemico con il quale non si scende a patti. Da questo presupposto deriva la violenza a cui assistiamo. Al punto che la morte del giovane immigrato di terza generazione per mano di un poliziotto, che è andato oltre i suoi doveri, finisce per non essere la causa dell’incendio che sta divampando in tutta la Francia, ma il pretesto, il detonatore casuale che innesca l’esplosione di quella che Fabio Marco Fabbri ha appropriatamente definito nel suo editoriale di ieri sul nostro giornale: “dis-integrazione interculturale latente cronica e strutturata”.

Ora, se le banlieues sono assurte al rango di luogo simbolico del disagio che anima la rivolta, purtuttavia non possono essere annoverate, se non tangenzialmente, tra i fattori giustificativi della ribellione. Certo, la categoria concettuale di periferie rimanda, nell’immaginario collettivo, all’idea di emarginazione sociale e spirituale di coloro che le abitano. È anche vero che nella configurazione delle città dell’Occidente sviluppato le periferie vivano i medesimi problemi d’isolamento e di scarsa integrazione con i segmenti della popolazione radicata nei centri urbani. Ma le periferie non sono tutte uguali e quelle francesi non sono peggiori e più degradate di altre che si possono trovare in giro per il Vecchio Continente. Per fare una comparazione, le periferie delle metropoli italiane, riguardo alle infrastrutture, alla mobilità e ai servizi assicurati ai cittadini sono messe di gran lunga peggio di quelle francesi.

È inutile girarci intorno: il male che colpisce la Francia si chiama mancata integrazione. Volete i nomi dei responsabili? Cercateli tra i referenti delle comunità d’immigrati che si sono spesi per evitare la contaminazione delle loro culture e delle loro religioni con l’hostis – il nemico – occidentale. La colpa grave dei governanti francesi degli ultimi decenni è stata di aver lasciato fare; di aver chiuso un occhio di fronte alla pervicace voglia di autoisolamento dei nuclei d’immigrati; di aver consentito la proliferazione di microcosmi indipendenti in opposizione al macrocosmo economico-sociale-istituzionale rappresentato dalla République; di aver fatto del concetto di società multietnica il totem della “società aperta”, plasmata dal progressismo occidentale; di aver abdicato al controllo securitario per dare precedenza alla domanda crescente di manodopera dell’apparato manifatturiero ai tempi della sua massima espansione. Oggi la realtà s’incarica di presentare il conto allo Stato francese che più di altre entità statuali ha praticato il paradigma dell’immigrazione senza integrazione.

Riguardo a noi italiani, c’è poco di che stare allegri. Non siamo la Francia, ma ci stiamo sciaguratamente incamminando sulla stessa strada. Con l’aggravante che il sistema di welfare universale che l’Italia può consentirsi non è paragonabile a quello transalpino. Una suicida politica dell’accoglienza, implementata nell’ultimo decennio dai Governi signoreggiati dalla sinistra, ha fatto lievitare il numero di extracomunitari presenti illegalmente sul nostro territorio. Fin quando i flussi secondari delle migrazioni – cioè tra Paesi aderenti all’Unione europea – hanno retto, il problema non è stato avvertito dai cittadini italiani in tutta la sua drammaticità. I guai sono cominciati quando i Paesi confinanti hanno chiuso le porte al transito dei clandestini. E hanno cominciato a rispedirceli indietro. Su un punto non si possono raccontare bugie: coloro che sbarcano o entrano via terra in Italia, ci restano. Nessuno se li prende. E, alla luce di ciò che sta accadendo in Francia, non gli si può dare torto. Quindi, il problema è nostro. Solo nostro.

Giorgia Meloni si dice soddisfatta dei progressi che sul tema dell’accoglienza è riuscita a far compiere all’Unione europea. Ma i risultati dove sono? Sarà che non abbiamo le lenti sottili degli statisti, ma tutti questi progressi sul dossier immigrazione proprio non riusciamo a vederli. Ciò che, invece, ci appaiono tristemente nitidi sono i numeri degli sbarchi che proseguono senza sosta. Al 3 luglio gli sbarcati dall’inizio dell’anno sono stati 65.836 (fonte: Cruscotto migranti Ministero dell’Interno). Nello stesso periodo del 2022 erano 28.405. Meno della metà rispetto a quest’anno. Complice la pandemia, ancor meno sono stati gli sbarchi nei primi sei mesi del 2021 (21.301). Si scorge una progressione numerica impressionante che ci condurrà a conteggiare, per il 2023, oltre 200mila arrivi di illegali. Non è una quota di flusso sostenibile per la tenuta sociale del nostro Paese. Bisogna fare qualcosa adesso, prima che sia troppo tardi. E questo qualcosa non può essere il piano che il pur volenteroso ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sta elaborando per riportare nei Paesi d’origine coloro che non hanno diritto a stare in Italia. Al momento, a fronte dei 18 accordi stipulati dall’Unione europea con altrettanti Paesi, il corridoio per il rimpatrio forzato dei clandestini è aperto solo con la Tunisia e con la Costa d’Avorio. Peccato, però, che la Tunisia riprenda soltanto 80 espulsi alla settimana. E peccato pure che con la Costa d’Avorio non esistano protocolli operativi per effettuare i rimpatri. E bastasse parlare con Tunisi e Yamoussoukro per risolvere il problema dei flussi migratori. La verità è che i clandestini giungono da tutte le aree del Terzo mondo. Nella speciale graduatoria dei Paesi di provenienza dei migranti la Tunisia è al sesto posto. Prima – oltre alla Costa d’Avorio – ci sono la Guinea, l’Egitto, il Pakistan, il Bangladesh, dopo la Siria, il Burkina Fasu e, a seguire, tanti altri Stati. Per non dire di quell’enigma avvolto in un mistero che è il flusso migratorio clandestino dalla Cina in Italia. Piantedosi pensa di aprire numerosi hotspot in Italia per contenere tutti coloro che, non avendo diritto a entrare nel nostro Paese, sono in attesa di rimpatrio. Potrebbero passare anni prima che i clandestini vengano rispediti indietro. Nel frattempo, viene attivato sul nostro territorio un universo concentrazionario, fonte potenziale di una grave minaccia per la sicurezza dello Stato.

L’Italia del buonismo ipocrita non vuole sentirlo ma, in assenza di alternative credibili, l’unico modo per arginare la marea montante degli arrivi illegali è il respingimento in mare con i mezzi della nostra forza navale da posizionare strategicamente a ridosso delle acque territoriali di Libia e Tunisia. Non stiamo suggerendo che bisogna prendere a cannonate i barconi carichi di immigrati. Stiamo semplicemente richiamando il solenne impegno preso dal centrodestra in campagna elettorale: creare una sorta di cordone protettivo delle nostre coste. Cosa bisognerebbe fare concretamente? Le navi della Marina militare, una volta intercettati i natanti, assistite le persone a bordo, dovrebbero scortarli fino al rientro nelle acque territoriali dei Paesi di partenza. Per la cronaca: il limite massimo di estensione del mare territoriale di uno Stato è di 12 miglia marine, generalmente individuabile a occhio nudo dalla terraferma in condizioni di ordinaria visibilità. Preveniamo l’obiezione: non si possono rimandare indietro i migranti perché Libia e Tunisia non sono Paesi sicuri. Ma come? Ci stiamo prodigando per far arrivare a Tunisi, a Tripoli e a Bengasi un fiume di denaro come solo la Turchia ha avuto il bene di ricevere per contenere i flussi migratori e poi ci facciamo scrupolo di rispedirgli quelli che vengono intercettati in mare? Ma che razza di sfacciata ipocrisia è questa?

Il Governo Meloni ha preso un impegno con la nazione, lo rispetti.

Aggiornato il 05 luglio 2023 alle ore 10:13