Questo Mes non s’ha da fare

Dopo mesi di navigazione relativamente tranquilla il Governo Meloni si trova ad affrontare la prima vera burrasca. Si tratta dell’iter di ratifica del Trattato che riforma il Meccanismo europeo di stabilità. Bruxelles sta esercitando forti pressioni perché l’Italia si decida a ratificarlo, visto che è rimasta ultima tra i Paesi della zona euro a dare il via libera. Il Partito democratico, chiedendone la calendarizzazione alla Camera dei deputati in quota ai provvedimenti dell’opposizione che devono essere discussi, prova a mettere in difficoltà la maggioranza. E non sbaglia tattica, perché nella coalizione di centrodestra un problema in tal senso c’è. Alla posizione di Forza Italia, sostanzialmente favorevole alla ratifica del trattato, fa da contraltare quella della Lega che è fermamente contraria. L’ago della bilancia potrebbe essere Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni, inizialmente ostile alla ratifica, potrebbe decidere di cambiare idea in nome della “realpolitik” abbracciata dalla premier nella tenuta dei rapporti con Bruxelles e con le principali cancellerie europee.

La discussione parlamentare sul tema dovrebbe prendere il via dal prossimo 30 giugno. Ma il condizionale è d’obbligo. Per la destra, decidere cosa fare non sarà facile, perché dire alla ratifica del trattato riformato – non al suo utilizzo – nasconde pericolose insidie per l’autonomia decisionale di ciascuno Stato aderente. Figurarsi per l’Italia, che è da sempre nel mirino del pacchetto di mischia degli Stati del Nord Europa, a cominciare dalla Germania. La sinistra – con l’eccezione dei contiani di M5s – sostiene che per l’Italia sia un’opportunità e, di conseguenza, accusano la maggioranza di fare il male Paese ritardandone la ratifica. Al fronte del in queste ore si è aggiunta una lettera-parere dell’avvocato Stefano Varone, capo di gabinetto del ministro dell’Economia, il quale con l’evidente benedizione del titolare del dicastero – l’outsider leghista Giancarlo Giorgetti – ha messo nero su bianco le salvifiche virtù che il Mes conterrebbe e il bene che tale strumento potrebbe fare all’Italia in termini di credibilità sui mercati finanziari. Al riguardo, consideriamo il Mes una trappola da evitare piuttosto che un’opportunità da cogliere. Chiariamo perché. Cominciamo col precisare che il Mes c’è già.

È in vigore dall’8 ottobre 2012, in forza di un trattato intergovernativo approvato dal Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011 e firmato dai 17 Paesi dell’Eurozona ai quali si sono aggiunti successivamente la Lettonia, la Lituania e la Croazia. Scopo principale del Mes è di fornire assistenza ai Paesi per la stabilità finanziaria nell’ambito dell’area valutaria complessivamente considerata. Al momento, è l’unico strumento permanente di cui si è dotata l’Ue per interventi di soccorso finanziario agli Stati membri. Non è gratuito. E non lo è in tutti i sensi. In particolare, l’entrata in azione del meccanismo altrimenti conosciuto come Fondo salva-Stati prevede l’applicazione di una “rigorosa condizionalità” ai Paesi che vi ricorrono. Cosa significa? Semplicemente che, con l’ingresso in campo dei funzionari del Mes, i governanti dello Stato richiedente assistenza perdono ogni potere sulla qualità della spesa pubblica, dovendo attenersi “rigorosamente” alle indicazioni vincolanti fornite dai tecnici del Mes.

È come quando in un’azienda arriva l’amministratore giudiziario nominato dal Tribunale. Non è ancora la condizione del fallito, ma per l’imprenditore l’esautoramento dalla guida dell’impresa è il medesimo. Ora, se tale figura è prevista dalle norme civilistiche riguardo alle imprese private, può funzionare quando si parla di Stati retti da sistemi democratici? Potremmo rispondere di no, ma sarebbe uno spreco di tempo perché, ribadiamolo, il Mes è vivo e vegeto. E l’Italia ne è grossa parte per consistenza del suo apporto al capitale. Vi partecipa per 1.250.187 quote, pari al 17,7382 per cento del contributo totale, terza dietro solo a Germania e Francia. In termini finanziari, stare nel Mes ci costa 14 miliardi 287 milioni 700mila euro versati, a fronte di 125 miliardi 18 milioni 700mila euro di capitale sottoscritto. Non sono bruscolini. Ma, visto che tutto questo c’è già, perché oggi la nuova maggioranza ha difficoltà ad apporre la propria firma sotto la ratifica alla modifica di un trattato già operativo?

Matteo Salvini e Giorgia Meloni provano a chiudere una stalla dalla quale i buoi sono scappati da tempo. Eppure, qualcosa ancora si può fare prima che il Mes dispieghi totalmente la sua forza devastatrice della sovranità degli Stati nazionali. Nel Consiglio europeo del luglio 2018 è stata assunta la decisione di estenderne le competenze alle funzioni di sostegno comune al Fondo di risoluzione unico per le banche. In concreto, il Mes non si sarebbe dovuto occupare soltanto dei possibili default degli Stati dell’Eurozona, ma anche di quelli degli istituti finanziari dei Paesi aderenti al Mes. Per inciso, un problema – quello dei salvataggi bancari – che sta a cuore a tedeschi e francesi e non all’Italia il cui sistema creditizio è solido. Da qui la necessità di revisione del trattato, la cui prima bozza è stata approvata dall’Eurogruppo nella riunione del 13 giugno 2019.

Si sperava di concludere l’iter procedurale entro la fine del 2019, ma l’insorgere della pandemia ha costretto a un rinviare la decisione finale. L’accordo definitivo sul trattato modificato reca la data del 27 gennaio 2021. La sua entrata in vigore è subordinata alla ratifica di tutti gli Stati aderenti. Mancando l’Italia, il nuovo strumento non decolla. Ed è un bene che ciò non accada perché l’insidia più grande che si cela dietro alla sola ratifica sta nella riscrittura dell’articolo 3 sugli obiettivi del Meccanismo europeo di stabilità. Nella nuova versione alla governance del Mes è affidato il compito di monitorare e valutare la situazione macroeconomica e finanziaria degli Stati membri, compresa la sostenibilità del debito pubblico. Tale funzione viene esercitata in via preventiva indipendentemente dalle richieste di sostegno dello Stato monitorato. Capirete bene quale potenziale esplosivo possa avere un simile meccanismo per uno Stato quale quello italiano, artatamente giudicato “debole” dai cosiddetti Stati forti dell’Ue a causa dell’elevato debito pubblico.

Ci potremmo ritrovare commissariati senza che un valido motivo lo giustifichi. Si obietterà: potrebbero altri Paesi dell’Ue interferire con il corso della politica interna italiana usando il Mes come arma impropria? Lo hanno già fatto nel 2011 con la defenestrazione del Governo Berlusconi. É dietro certi sorrisetti ipocriti e strette di mano di cortesia che si nascondono i nemici dell’Italia. Grazie al combinato disposto con la nuova perimetrazione del Patto di Stabilità, attraverso il quale alcuni Stati, Germania in testa, vorrebbero reintrodurre l’austerity finanziaria nell’eurozona, l’interferenza del Mes segnerebbe la fine di ogni capacità del Governo italiano di tenere testa alle impennate di Bruxelles. Farlo passare sarebbe per il centrodestra come piantarsi una spada di Damocle sulla capoccia, pronta a cadere alla prima occasione di congiuntura sfavorevole. È comprensibile che, messi di fronte a una decisione che finirà – qualunque essa sia – davanti al tribunale della Storia, gli interessati ci pensino parecchio.

La sinistra, invece di dare una mano a imboccare la giusta direzione, si preoccupa di spargere benzina sul fuoco. L’ultima è da veri irresponsabili, nemici giurati dell’interesse nazionale. Dicono a sinistra che, se non passa la ratifica, ci saranno serie conseguenze per l’Italia, in particolare sulla richiesta di flessibilità nell’attuazione del Pnrr. Cioè, si ammette che Bruxelles possa ricattarci. E questa sarebbe la nuova frontiera dell’integrazione europea? Tutta minacce e ricatti? La nostra speranza è che ciò non sia vero, ma sia il frutto avvelenato della demagogia manipolatrice dei progressisti. Tuttavia, provare per credere. E l’unico modo di stabilire la verità circa la natura autentica di questa Unione europea è tenere duro sul rifiuto ad avallare uno strumento di forte compressione della sovranità degli Stati nazionali. Perché, se davvero il futuro che ci attende è quello di una subalternità incondizionata agli interessi sovranazionali maneggiati dai poteri poco trasparenti delle oligarchie eurocratiche, meglio saperlo prima. Quando c’è ancora tempo di dire con buona dose di coscienza patriottica: questa cosa così non va, perciò non se ne fa niente.

Aggiornato il 23 giugno 2023 alle ore 12:27