C’è qualcosa di ancora più importante delle misure adottate con il recente Consiglio dei ministri, con le quali si abroga l’abuso d’ufficio, si rimodella il traffico di influenze, si cerca di salvaguardare i terzi il cui nome venga fuori da intercettazioni, si vieta al pubblico ministero di appellare contro le assoluzioni per reati minori. Ed è ciò che il ministro di Grazia e Giustizia, Carlo Nordio, ha detto nel corso della conferenza stampa nella quale sono state presentate le citate riforme. Egli ha affermato: “È patologico che in Italia molto spesso la politica abbia ceduto alle pressioni della magistratura sulla formazione delle leggi. Questo è inammissibile. Il magistrato non può criticare le leggi, come il politico le sentenze. Ascoltiamo tutti, ma il Governo propone e il Parlamento dispone. Questa è la democrazia e non sono ammesse interferenze”.
Da un certo punto di vista, si tratta di affermazioni ovvie, condivisibili, perché conseguenza diretta del principio della separazione dei poteri e tali per cui una matricola di Giurisprudenza le conosce, e le fa proprie, senza alcuna difficoltà. Tuttavia, in Italia il caso è diverso. Soltanto in Italia esiste da decenni una magistratura associata che, organizzata in correnti, è riuscita a proporsi inesorabilmente quale soggetto pienamente politico, interlocutore privilegiato del Governo e del Parlamento. Perciò, fanno soltanto sorridere le osservazioni di coloro che si sono scandalizzati di quanto affermato dal ministro, obiettando che il diritto di critica è garantito dalla Costituzione, come ha asserito, fra gli altri, Gianrico Carofiglio, ostentando una mal riposta preoccupazione. In realtà, il diritto di critica qui non c’entra assolutamente nulla.
Il fatto, invece, è che nella cornice dello Stato di diritto – quale si crede ancora sia il nostro – il principio della separazione dei poteri esige che i magistrati si limitino a interpretare e applicare la legge, senza proporsi lo scopo di intervenire, prima della sua emanazione, presso il Governo per modificarne uno o più articoli in un senso o in un altro. Ma è proprio questo che abitualmente l’Associazione nazionale magistrati da molti anni ha cercato di fare, spesso riuscendo nell’obiettivo di condizionare la maggioranza di Governo, valendosi anche dell’appoggio assoluto di larga parte della stampa (incline a favorire questo andazzo per non inimicarsi i magistrati, dai quali attingere notizie di prima mano, dando vita a ciò che è stato efficacemente definito il “circolo mediatico-giudiziario”) e dei partiti d’opposizione, ben felici di contestare le scelte governative attraverso le prese di posizione dei magistrati.
Beninteso, nessuno potrà negare al singolo magistrato la possibilità di scrivere un articolo su un quotidiano o su una rivista specializzata, per criticare negativamente ogni tipo di riforma; o quella di parlare a un convegno o a una tavola rotonda usando toni, anche aspri, dello stesso tenore. Ma è chiaro che quando interviene, per bocca del suo presidente, l’Associazione magistrati nel suo complesso e quando si fa sentire addirittura prima che il testo del disegno di legge sia portato in Parlamento – come accaduto in questo e in molti altri casi – allora la situazione è molto diversa e preoccupante.
In questi frangenti, l’ Associazione ha la pretesa, infatti, di comportarsi come un vero e proprio partito – fra l’altro suddiviso convenientemente in correnti (che sono il vero cancro della magistratura) – autorizzato perciò a confrontarsi col Governo nel corso del confezionamento dei testi di legge e a usare tutti i mezzi a disposizione (incontri diretti, interviste, articoli giornalistici, pressioni di vario genere, perfino lo sciopero) per ottenere le modifiche ritenute opportune, attraverso la captazione del consenso popolare.
Gli illuminati benpensanti come Massimo Giannini e Lilli Gruber subito obbietteranno che, ciò facendo, l’Associazione non incorre in alcun male, trattandosi della normale dialettica democratica. Ci si dimentica, però, che l’Associazione magistrati non è un sindacato o un partito, perché ha come soci proprio coloro che sono chiamati dalla Costituzione ad applicare le leggi. Perciò – come ha precisato Nordio – è inammissibile che, chi debba svolgere questo delicatissimo compito, voglia anche metter bocca nel confezionare le norme le quali, il giorno dopo, dovrà applicare: quando ciò accade – come avvenuto più volte in passato – il principio della separazione di poteri, per il quale le leggi le fa il Parlamento e non i magistrati che invece le applicano, va a farsi benedire. E con esso la nostra libertà, perché un potere eccessivo viene pericolosamente concentrato nelle mani dei soli magistrati: lo Stato di diritto svanisce.
Ecco perché le parole di Nordio sono addirittura più importanti del contenuto delle riforme da lui proposte. Esse segnano una rivoluzione, perché mai negli ultimi cinque decenni nessun ministro ebbe il coraggio di pronunziarle con eguale chiarezza e senza ammettere repliche. Nordio riveste, perciò, il paradossale ruolo di “ministro rivoluzionario” che non è contraddittorio. La sua rivoluzione opera, infatti, nel nome della giustizia e della libertà. Che si vuole di più da un ministro?
Aggiornato il 20 giugno 2023 alle ore 09:49