Enzo Tortora: ripensando a quei giorni…

All’inizio tutto sembra chiaro, perfino semplice: dei camorristi si “pentono” e raccontano i loro segreti, i delitti commessi e ordinati da loro e dai compari, gli “insospettabili” complici. Tra gli insospettabili c’è lui. Tutto sembra chiaro, all’inizio. Troppo chiaro. Enzo Tortora, amato ma anche detestato: la sua trasmissione è un fiore all’occhiello della Rai; ma zuccherosa, melensa, comunque troppo educata, non urlata; e che invidia, per quei milioni di telespettatori a ogni puntata. Che piacere, che soddisfazione vedere Tortora “incollato” a reati da far tremare le vene ai polsi: accusato di essere un “cumpariello” della camorra legata a Raffaele Cutolo; di essere un “cinico mercante di morte”, uno spacciatore di cocaina. Dopo, ma solo dopo, dopo “tanto dopo” si saprà che è stato arrestato per “pentito preso”; che non c’è ombra di prova, di indizio, non c’è nulla.

Leonardo Sciascia annota: “Quando l’opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario – divisa tra “innocentisti” e “colpevolisti” – in realtà la divisione è tanto sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, quanto per impressioni di simpatia o antipatia”. Ed è come uno scommettere su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Quello per settimane, mesi, è il cosiddetto caso Tortora. Ancora oggi, quarant’anni dopo, resta inspiegabile come degli investigatori, dei magistrati, abbiano potuto dare credito a personaggi come Giovanni Pandico o Pasquale Barra, e via via, a tutti gli altri sedicenti “pentiti”. Ancora oggi resta inspiegabile che il pubblico ministero, nella sua requisitoria abbia potuto dire, senza ombra di incertezza: “Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?”.

“Cercavamo”.

Mai pedinato per coglierlo con le mani nel sacco, come pure sarebbe stato logico fare. Nessuna intercettazione telefonica nelle sue utenze. Nessuna ispezione patrimoniale e bancaria per cercare di individuare come e dove finiva il frutto del suo delinquere; neppure ci si dà pena di verificare a chi appartiene realmente il numero di telefono trovato nell’agendina di una convivente di un camorrista da quattro soldi. “Cercavamo”. Chi ha cercato? Come ha cercato? Cosa ha trovato? A quarant’anni di distanza, sono interrogativi senza risposta. Nessuno degli accusatori di Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Ora tutti parlano dell’infamia di cui Enzo è rimasto vittima. Quarant’anni fa, a dire quello che oggi dicono tutti, s’era davvero in pochi. Eppure quando Tortora viene esibito come “mostro”, in realtà, di una mostruosità è vittima; mostruosità che si può vedere subito, e proprio chi avrebbe dovuto e potuto vederla non la vede. Non vuole vederla. Ci sono frasi, parole, che restano scolpite, non c’è bisogno di annotare sul taccuino. Una di queste frasi è di Leonardo Sciascia: “Il caso Tortora non sta soltanto nell’angosciosa vicenda che sta vivendo: è il caso del diritto, il caso della giustizia”. Il punto lo coglie lo stesso Tortora, quando sostiene che il suo, in realtà, è “il caso Italia”; come Sciascia: “il caso del diritto, il caso della giustizia”. Il diritto negato, la giustizia che non c’è, non vengono garantiti: nelle forme e nella sostanza.

Tortora da quella vicenda esce schiantato. Stroncato da un tumore vuole essere sepolto con una copia della Storia della colonna infame, di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Di questa vicenda sappiamo molto, quasi tutto. Manca, tuttavia, a tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “Perché?”. Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21.45 del 27 aprile 1981, quando le Brigate rosse sequestrano Cirillo.

Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della Dc, Cutolo, uomini dei servizi segreti per “riscattarlo”. Per lui si fa quello che non si volle fare per Aldo Moro. Viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro viene trovato. Durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi di lire. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Avessero dato un miliardo a ogni terremotato, sarebbero rimasti dei soldi. La ricostruzione è stata fatta solo in parte, e male; e il denaro è evaporato in mille rivoli. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora “brucia”. “Cinico mercante di morte”, così viene definito Tortora. Il piccolo particolare è che di prove, contro di lui, non ce n’è neppure una.

Giovanni Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto ‘o animale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello, ne mangia l’intestino. Con le loro dichiarazioni Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto dai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, fatta filtrare, anni fa, dalla Direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale.

È in questo contesto che nasce il “venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”: 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104. Documenti ufficiali, non congetture. A monito (e anche, perché no, ad allarme, simile a una campana che segnala l’arrivo di predoni), le parole scritte da Sciascia il 14 ottobre 1983, sul Corriere della Sera. Sciascia dell’innocenza di Tortora è sicuro, ma al di là del caso specifico, lo difendeva “per difendere il nostro diritto, il diritto di ogni cittadino, a non essere privato della libertà e a non essere esposto al pubblico ludibrio senza convincenti prove della sua colpevolezza”.

Già questo sarebbe sufficiente. C’era però anche una più generale e specifica motivazione: “L’amministrazione della giustizia, insomma, viene assumendo un che di ieratico, di religioso, di imperscrutabile – e con conseguenti punte di fanatismo. Elementi che hanno contribuito a questo stato d’animo, che ormai circola come sangue nel corpo della magistratura, a questa situazione di irresponsabilità, di privilegio, di refrattarietà e insofferenza a ogni critica in cui pare la magistratura tenda ad arroccarsi, sono stati – a dirla sommariamente – questi: l’ordinamento di assoluta indipendenza che si è voluto – giustamente – dare al potere giudiziario e in cui però, di fatto, è insorta la dipendenza partitocratica; il vuoto che è venuto in sé promuovendo il potere esecutivo e che è stato come un invito (e una necessità) a che il potere giudiziario lo riempisse; la confusione in cui il potere legislativo si è abbattuto”. È un discorso che vale anche per l’oggi, e si ha da temere, per almeno il prossimo futuro. Le parole di Sciascia sono “vive”. Tremendamente “vive”. Terribilmente, attuali e “vive”.

Aggiornato il 19 giugno 2023 alle ore 09:55