Se n’è andato. E l’ha fatto a modo suo, spiazzando tutti. In molti hanno detto, e scritto, che la sua dipartita segna la fine di un’epoca. Non è così. L’uomo in carne e ossa non ci sarà più, e di questo dovremo farcene una ragione. Come quando si perde un affetto caro, una persona di famiglia. Non vorresti che accadesse, ma accade. Ma ciò che è stata l’anima di un visionario, capace di vedere più lontano di tutti, non è morta. Quella resta, se possibile rafforzata rispetto all’evento naturale della morte, perché consegnata all’immortalità della Storia – sì, Storia con la S maiuscola, perché è quella a cui appartiene l’uomo che è stato grande tra i grandi del suo tempo – e destinata a illuminare il percorso di chi ha scelto d’incamminarsi verso il futuro seguendo il solco da lui tracciato.
Berlusconi ha cambiato il paradigma morale, sociale e politico del Paese. Che lo abbia fatto sempre in meglio sarebbe una stoltezza affermarlo. Anche lui ha percorso traiettorie esistenziali in chiaroscuro, tra molte luci e qualche ombra, tra molti successi e alcune sconfitte. Tra molte cose azzeccate e qualche errore costatogli caro. Soprattutto nella scelta dei compagni di viaggio, non tutti all’altezza della sua visione; non tutti leali nel rapportarsi a lui; non tutti disinteressati nel trarre benefici dalla sua vicinanza. Ma, vivaddio, era un uomo. Non un santo o un unto del Signore. Era umano. Anzi, per dirla con Friedrich Nietzsche, era fin troppo umano. Spacciarlo, da morto, per il Messia del Novecento, consegnandolo a un frettoloso, quanto inopportuno, processo di beatificazione è il torto più grande che gli si possa fare ora che non c’è più. E poi, dopo averlo sepolto sotto una montagna di torti e d’insulti da vivo? Sepolture dalle quali, peraltro, è puntualmente riuscito a riemergere con somma sorpresa e sgomento dei suoi necrofori. Se proprio si dovesse cercare un riferimento evangelico per santificare la vita dell’uomo pubblico Berlusconi, l’unico che potrebbe essere accostato alla sua vicenda politica è l’evento misterioso della resurrezione. Sì, Berlusconi è stato uno specialista in resurrezioni. E forse per questo qualcuno, in cuor suo, spera ancora che l’odierno dramma sia l’ennesimo scherzo del Berlusconi giocherellone e gaudente, testimonial ideale per dimostrare al mondo che la vita è bella, che va presa con un sorriso, che può essere migliorata solo che lo si voglia e che, comunque, in ogni caso, anche al cospetto delle più gravi disgrazie, merita di essere vissuta. Lo immaginate il vecchio leone, nel dolore e tra le lacrime di tanti - famigliari e non- che l’hanno amato, schizzare fuori dalla bara e dire sorridente: “ci siete cascati, ma sono ancora qua”? Già, sarebbe bello, ma non accadrà. Questo è un sogno che lui, l’uomo che ha portato il sogno nella politica e nella vita degli italiani, non può regalarci. Resta, però, il lascito di un datore di senso qual è stato lui. Già, perché offrire una visione, regalare un sogno, ha dato un orizzonte di senso a chi quel dono lo ha ricevuto, a chi quell’offerta l’ha colta.
D’accordo, ci ha promesso la rivoluzione liberale che non si è realizzata. Purtuttavia, possiamo dirci meno liberi, meno consapevoli del nostro posto nella vita e nella storia di una comunità nazionale, meno fiduciosi nelle nostre forze, meno vogliosi di costruirci da soli il nostro destino, di quanto lo fossimo trent’anni orsono, quando il “Cav” ha fatto irruzione su una scena politica terremotata dal sisma giustizialista di “Mani pulite”? Se oggi siamo più attenti a stigmatizzare la malagiustizia e a mostrare sensibilità per i diritti degli imputati oltre che per quelli delle vittime di reati, lo dobbiamo alla sua indomita battaglia contro la tracimazione dello strapotere giudiziario nella vita sociale ordinata dalle norme liberali della Costituzione repubblicana. Se siamo amanti della libertà, allergici all’invadenza dello Stato etico nelle vite private degli individui, lo dobbiamo al più devoto credente nella religione civile della Libertà. E se sul piano della politica abbiamo imparato a schierarci, a prendere posizione netta da una parte o dall’altra del campo delle ideologie e delle culture, è merito suo che ha incarnato lo spirito profondo del bipolarismo quale motore propulsore del più sano e desiderabile concetto di democrazia. Ciò che d’ora in avanti accadrà in sua assenza nel mondo della politica, come in quello dei media, non è dato saperlo. I molti figli, partoriti dal berlusconismo, da oggi ne sono gli eredi. Toccherà a loro fare in modo che quel patrimonio di idee e di valori che si ritrovano tra le mani venga vivificato perché continui, negli anni a venire, a fruttificare. Guai a pensare di rinchiudere la memoria di Berlusconi in un museo. E ancor peggio, proporsi gli eredi quali custodi delle sue spoglie museali. L’Italia non ha bisogno che le si racconti cos’è stato Berlusconi nella sua lunga vita. Lo sa già. Gli italiani hanno bisogno che i suoi eredi comincino a comportarsi come lui ha insegnato loro di fare, con l’esempio.
Probabilmente il lascito più importante che il vecchio leone vorrebbe che tutti noi raccogliessimo è il metodo di lavoro, grazie al quale è riuscito in grandi imprese in tutti i settori nei quali si è cimentato. L’auspicio è che nelle università, anche quella accolita di mezze cartucce che sono i docenti universitari arruolati a tempo indeterminato per demonizzare e infangare l’onore del “nemico ontologico” Berlusconi, decidano di impegnarsi seriamente a insegnare il paradigma metodologico creato dall’estroso imprenditore, che come nessun altro ha dato corpo alla più romantica utopia della gioventù contestatrice del Sessantotto: la fantasia al potere.
Se un giorno si volesse ricordare l’opera del grande visionario, il modo a lui gradito ci sarebbe. Berlusconi è stato realmente un costruttore di ponti di pace. La più grande intuizione, che resterà nella storia legata al suo nome, è stata l’intesa di pace tra Usa e Federazione Russa, di Pratica di Mare. La storia non si fa con i se. Tuttavia, è ragionevole pensare che se quel processo di avvicinamento di Mosca all’Occidente fosse stato coltivato, e non ostacolato, dai leader occidentali oggi non ci troveremmo sull’orlo di una catastrofe globale con una guerra pericolosissima combattuta dentro i confini d’Europa. Lui, Berlusconi, un chiodo fisso l’ha avuto: costruire il Ponte sullo Stretto. Non solo un’opera d’ingegneria ma anche un potente messaggio simbolico. Matteo Salvini, da ministro delle Infrastrutture, ha giurato sulla sacra pietra che il Ponte si farà. Allora, la buttiamo lì. Perché non dedicare al vecchio leone la più grande opera infrastrutturale scaturita dal genio creativo italiano? Così che le future generazioni che transiteranno sul “Ponte Berlusconi” per passare dal continente alla Sicilia, e viceversa, potranno soffermarsi a pensare che vi sia stato qualcuno d’importante nelle storie dei loro genitori e dei loro nonni. Non è anche questo un modo per guadagnarsi quell’immortalità nella memoria collettiva di una nazione, intimamente desiderata da Silvio Berlusconi?
Aggiornato il 15 giugno 2023 alle ore 09:57