Del re costituzionale i manuali dicono che regna ma non governa. La semplice verità è invece che Berlusconi, il misterioso Silvio, un diavolo angelicato, regnava e governava. Inoltre Berlusconi era il padre e la madre dei suoi parlamentari perché in effetti a lui soltanto dovevano il seggio, le cariche attese, la carriera futura. Nessun leader politico della democrazia italiana, prima e dopo, li ha avuti in pugno come lui senza apparente disciplina di partito.
Brioso e spigliato, conversevole in compagnia dei molti e dei pochi, parlatore quasi logorroico, irrefrenabile davanti a spettatori televisivi, fui per contrasto colpito davvero nel constatare che nelle riunioni ascoltava con attenzione piuttosto che parlare e annotava appunti sul classico blocco di carta.
A parer mio, Berlusconi era un mistero. Contrariamente alle apparenze e alle opinioni di tanti su di lui, né la faccia ridente in pubblico quasi sempre né il volto pensieroso o addirittura corrucciato in privato ne completavano un ritratto credibile secondo me, che pure lo conoscevo da poco. Mi confidarono di ricordarlo affranto e disperato in attesa del salvataggio delle sue reti televisive oscurate dai pretori. Egli sentiva visceralmente la proprietà della sua roba, accumulata anche con acrobazie imprenditoriali e finanziarie, trascinando la fortuna per i capelli. Non per caso, vantandosi dei risultati conseguiti nei campi di cimento, ripeteva spesso “mi faccio concavo e convesso per raggiungere lo scopo.” La strabordante considerazione di sé, che un suo acrimonioso schernitore di talento volle definire con il neologismo “egolatria”, specificamente dedicatogli, non mi sembrò mai un difetto o vizio da esecrare. Nessun tycoon, nessun magnate dell’economia e dell’industria è mai stato privo d’un simile carattere, comunque lo si voglia qualificare. L’energia vitale che anima e muove l’imprenditore costituisce l’essenza della competizione capitalistica nel mercato e nella concorrenza. Senza gli animal spirits anche la società libera ristagnerebbe come acqua di gora. A Berlusconi rimproveravano d’essere l’iniziatore del suo patrimonio e d’averlo ottenuto anche forzando la legge e talvolta violandola del tutto, fino alle connivenze mafiose. Glielo rinfacciavano anche scrupolosi moralisti montati in groppa alla virtù soltanto dopo la loro sconfitta politica.
Il “mistero Berlusconi” che gl’investigatori, pure improbabili, hanno cercato di svelare dopo la sua “discesa in campo”, li ha portati ad indagare sull’origine delle sue ricchezze e sui modi e mezzi usati per conservarle e accrescerle. Però mi appariva l’aspetto meno interessante del misterioso personaggio, per quanto le annose investigazioni di magistrati e giornalisti lo avessero portato alla luce. Per vastità e profondità sembravano più indagini da storici prima del tempo storico.
A Berlusconi s’addiceva il chiaroscuro. Le luci e le ombre lo collocavano nella prospettiva umana. Ora esposto in pieno, ora offuscato. Mostrava il lato illuminato in piena luce, occultando il buio. Non come il satellite della Terra. Infatti, per quanto apparisse levigato, non era sferico bensì poliedrico, con tante facce risplendenti e qualcuna opaca, così profondamente oscura che egli stesso riluttava a specchiarvisi o guardarvi in profondità. In un’intervista, la sua seconda moglie dichiarò pressappoco che pure quando lo stringeva a sé non capiva fino in fondo chi stesse abbracciando. La dichiarazione confermò l’idea che avevo dell’uomo Berlusconi. Solo le biografie future potranno forse svelarlo al completo. Lui vivente, è stato impossibile delinearne la figura a tutto tondo. Girargli intorno, come alle statue, per ritrarlo a tre dimensioni, non riuscì a nessuno.
Silvio Berlusconi aveva concepito Forza Italia come suo braccio armato. Armato contro chi, contro cosa, perché? That is the question! L’amletismo berlusconiano fu parte integrante del suo mezzo insuccesso politico. Berlusconi impugnò le armi contro il mare di guai del cattocomunismo, ma contrastandolo non pose fine ad esso. Non era il tipo da soffrire nobilmente una sfortuna oltraggiosa. Ma neppure di andare fino in fondo per scongiurarla, eliminandone le cause. Egli ricostruì la diga anticomunista, che era stata la DC nel 1948, utilizzando fantomatici mattoni di un partito liberale di massa. La diga tenne al primo urto della forza contraria, ma la fragilità del materiale minò le basi che presto crollarono. Qualcuno potrà dire che l’impresa di Berlusconi, temeraria nel concepimento e nell’esecuzione iniziale, fu poi prudente e difensiva negli svolgimenti successivi, secondo l’arte del possibile. Qualcun altro vorrà vedervi il riflesso dell’adattamento ad interessi economici implicati e connessi alle mosse politiche. Alla domanda cruciale sul perché Berlusconi sguarnisse il bastione del liberalismo sul quale aveva proclamato di attestarsi, la mia prima risposta è che gli mancarono truppe così motivate a difenderlo. Pur avendo reclutato quattro liberali, li concepì come fiori all’occhiello, invece che nerbo vitale delle sue forze. Ma la mia risposta completa è che egli, al dunque, costituisse la quintessenza del liberale all’italiana, che ama la libertà a favore, per servirsene piuttosto che servirla.
Quanto alla “rivoluzione liberale” promessa, avrebbe dovuto, come tutte le rivoluzioni, essere fatta da “rivoluzionari”, mentre Berlusconi, seppure fosse stato un liberale integrale, tutto era fuorché rivoluzionario. E sto parlando di rivoluzione per metafora. Estraneo alla sua cerchia intima, restavo talvolta sconcertato da una certa qual doppiezza o, sfumando, incoerenza dell’azione politica e parlamentare. Quando, il primo anno, 1994, governammo, il compito fu alquanto semplice, per dire. Dovevamo difenderci in ogni modo e a tutti i costi da un’opposizione invelenita dalla bruciante sconfitta inattesa. L’alleanza progressista aveva già stilato la lista dei ministri. I nominati in pectore non erano tranquillizzanti. A parte tutto il resto, cioè portare i postcomunisti e i cattocomunisti al governo senza lavacro ideologico, intendeva traslocare “Mani pulite” a Palazzo Chigi, in carne ed ossa per qualche ministero, sempre come mentalità. Il capo dei progressisti, che aveva appena pianto lacrime di coccodrillo nel cambiare il nome del Pci in Pds restando acrobaticamente segretario dello stesso partito, volle dipingere l’alleanza progressista come “gioiosa macchina da guerra”, nella speranza che gli elettori fossero attratti dalla gioia inesistente anziché spaventati dalla bellicosità vera. Ora che su quello scontro epocale è calata la luce sempre opaca della storia, un fatto però è chiaro. Gli eredi del Pci erano straconvinti di avere un diritto morale e politico a governare. Era venuto il loro tempo, nel disfacimento dei partiti che li avevano tenuti fuori del governo centrale. Così pensavano. Adesso il potere spettava a loro, nella convinzione presuntuosa che fossero non solo la maior pars ma soprattutto la melior pars della nazione. Berlusconi, mettendo insieme la contrapposta alleanza del Polo delle libertà, dimostrò che non erano né maggioritari né migliori. Questo è il suo merito storico, da considerare “rivoluzionario” in quella temperie. Gli sconfitti non dimenticarono mai. Utilizzarono ogni mezzo per vendicare la disfatta, che percepirono come un’onta morale più che una sconfitta politica.
Ebbi più della sensazione che Forza Italia, vale a dire Berlusconi in persona, non volesse andare fino in fondo. In parte la ritrosia era giustificata dal tipo di alleati che il Polo aveva assemblato e dai motivi che li avevano spinti ad allearsi. Erano gli stessi, quelli eterni della politica: speranza e potere. Solo accodandosi alla novità del berlusconismo, Fini e Bossi, due “vecchi” militanti partitocratici, potevano sperare di agguantare il governo della Repubblica. Berlusconi, che amava alla follia paragonarsi alla Fata Smemorina, aveva compiuto la magia di unire nel suo patto un secessionista antitaliano e un nazionalista postfascista, un paraliberista e un parasocialista. Dal suo punto di vista, che era pure una profonda convinzione e una realtà di fatto, egli aveva miracolosamente trasformato davvero due zucche partitiche in una carrozza politica. D’altro canto, in cuor suo era convinto, e lo dava a vedere con malcelata albagia, che i suoi parlamentari fossero cucuzze prima d’esser stati toccati dalla sua bacchetta magica. Più in generale, la specifica considerazione dell’asserita sua magia lo portava a convincersi che mai sbagliasse nella scelta delle persone mentre, di fatto, su cento nomine magnificava le tre ben riuscite dimenticando tutte le altre andate a male, come se non fossero state decise da lui. Era il suo modo d’incoraggiarsi sempre. Pure quando sbagliava. Una variante del suo ottimismo inattaccabile, a prova di sfortuna. Resistette, finché poté, all’assalto della magistratura. Era mai possibile che tutti i procedimenti giudiziari fossero falsi? Se per alcuni erano troppi per essere veri, per altri erano troppi per non esserlo.
Aggiornato il 13 giugno 2023 alle ore 10:14