Giustizia riparativa come morte della giustizia penale

La nuova frontiera del diritto penale appare ormai essere quella della “giustizia riparativa”, vista anche in Italia, dopo gli Stati Uniti e l’Europa, come la via obbligata per svecchiare opportunamente un sistema penalistico che sembra a molti vetusto e non più in grado di fronteggiare le nuove esigenze sociali.

Questa nuova prospettiva – sulla quale si moltiplicano convegni, studi, tesi di laurea – in estrema sintesi, ripudiando la tradizionale impalcatura del diritto penale basata sulla verifica della colpevolezza dell’imputato, allarga la visuale nei confronti delle vittime del reato commesso, chiedendo una collaborazione piena e fattiva fra l’autore del reato e le vittime allo scopo di ricostituire le relazioni spezzate dal fatto illecito, favorendo perciò la “riparazione” degli effetti negativi che ne siano derivati, attraverso l’ausilio di un mediatore appositamente formato e preparato.

Quasi tutti applaudono a questa nuova visione e soprattutto molti cattolici i quali, sentendo parlare di collaborazione, accordo, riparazione, non possono che approvare entusiasticamente (ma sbagliando) ciò che loro appare come un salutare abbandono delle “fredde” ragioni del diritto a favore di un nuovo rapporto umanamente “caldo” e foriero di pacificazione per tutti.

Le cose tuttavia non sono così semplici, al punto che mi sento di poter affermare che il dispiegarsi effettivo della giustizia riparativa rappresenta una vera sciagura per ogni compagine umana che intenda vivere – come non potrebbe non essere – sotto il segno della giustizia.

E ciò per alcune ragioni che brevemente qui espongo.

Innanzitutto, a differenza di quanto accade nel diritto privato nel cui ambito i beni in contestazione appartengono al regno del disponibile (mobili, immobili, denaro, crediti, azioni, titoli, ecc.), il diritto penale si occupa invece di un bene indisponibile per definizione, vale a dire della colpevolezza dell’imputato.

Infatti, nessuno, neppure lo Stato o il suo portatore possono disporne in alcun modo, perché si tratta di una dimensione trascendente la mera oggettualità delle cose: essa incide molto sulle cose del mondo ma si trova fuori del mondo.

Ne viene che voler disporre dell’indisponibile rappresenta una grave e inguaribile ferita nel delicato tessuto della giustizia, e perciò – lo si sappia o meno – nella esistenza di tutti noi.

Da un secondo punto di vista, la giustizia riparativa non accenna all’imputato, ma unicamente all’autore del reato. Si tratta di una terminologia pregiuridica che in punto di diritto non significa nulla: chi sarebbe mai questo autore? Non essendo – prima del giudizio – l’imputato e neppure – dopo il giudizio – il colpevole, l’autore del reato rimane ignoto.

Forse si allude, sociologicamente, a colui al quale il reato viene attribuito. Bene: ma si è pensato che costui, per accedere alla procedura riparativa, dovrebbe prima confessarsi colpevole? E visto che il giudice deve tener conto della disponibilità ad accedere alla procedura riparativa, non è da escludere che si possa essere indotti alla confessione al solo scopo di uscire dall’incubo di un processo nel modo meno gravoso possibile, a prescindere dalla colpevolezza.

Da un terzo punto di vista, non è difficile immaginare cosa potrebbe accadere nel caso in cui le vittime del reato siano numerose, come avviene per esempio nel falso in bilancio o nell’aggiotaggio, reati che possono ledere anche migliaia di soggetti. Una situazione ingestibile che la dice lunga sulla praticabilità di questa procedura.

Potrei continuare, ma mi limito a due critiche finali.

La legge già varata nella scorsa legislatura prevede la formazione di appositi mediatori, il che significa che si pensa di avere uno stampo già pronto all’uso, sul quale conformare gli aspiranti mediatori: una prospettiva errata in linea di principio, in quanto un tale mediatore dovrebbe essere per definizione una personalità elastica, adattabile alla mutevole realtà, l’esatto contrario di ciò che si vuole.

Per altro verso, la prospettiva riparativa colpisce a morte la giustizia in quanto tale – quale ripartizione di ragioni e di torti – facendo perdere al diritto penale il suo costitutivo carattere pubblicistico, per ridurlo al ruolo di ospite sgradito di accordi e contro accordi di tipo strettamente privato, nei quali viene esaltata la presenza e il peso delle vittime e dei loro eredi.

Ciò produce due effetti perversi.

Per un verso – lo ha notato bene Filippo Sgubbi – svanisce il diritto penale e di conseguenza evaporano le ragioni della giustizia e la possibilità di una coesistenza organizzata.

Per altro verso, collegare la sorte dell’autore del reato (chi sarà mai ?) alla valutazione delle vittime è l’esatto contrario di ciò che pretende la giustizia: il più ingiusto giudice di un imputato (presunto innocente) è sempre chi ne sia stato vittima (perché lo ritiene presunto colpevole).

Aggiornato il 01 giugno 2023 alle ore 13:01