Sul secondo turno delle Amministrative si è detto tutto. Il colpo d’occhio che se ne ricava è francamente impressionante. Nei sette comuni capoluogo andati al ballottaggio, il centrodestra prevale in cinque di questi (Ancona, Brindisi, Massa, Pisa, Siena) mentre il centrosinistra vince a Vicenza con minimo scarto di voti. A Terni ha vinto un candidato civico, Stefano Bandecchi, vagamente riconducibile al centrodestra per via delle sue pregresse simpatie alfaniane (nel senso di Angelino Alfano), che ha però sconfitto al ballottaggio proprio il candidato del centrodestra, il “meloniano” Orlando Masselli. Sommando gli odierni risultati a quelli che hanno assegnato le vittorie al primo turno e verificato l’andamento del voto in Sicilia, non si può negare il trionfo del centrodestra e, di riflesso, nascondere il crollo del centrosinistra. Tuttavia, la politica vive di chiaroscuri, non tutto è luce e non tutto è ombra. Mai. Ragione per la quale sarebbe salutare che i leader del centrodestra, insieme ai motivi di esultanza, si preoccupassero di riflettere su ciò che non è andato per il giusto verso.
Partiamo dall’affluenza. Il dato del secondo turno la fissa al 49,61 per cento degli aventi diritto, in calo rispetto al primo turno che ha segnato la partecipazione al voto del 58,39 per cento degli elettori. Tale divario non sorprende. È ormai cronicizzata la tendenza di parte dell’elettorato a disertare i ballottaggi. Ciò che invece sorprende in positivo è il rovesciamento del trend che, in passato, al secondo turno vedeva penalizzato dall’assenteismo il centrodestra più di quanto lo fosse il centrosinistra. Abbiamo più volte stigmatizzato la scarsa tenuta dell’elettorato di centrodestra nel sostenere fino alla fine i propri candidati. Ci siamo spinti a definire malvezzo di natura antropologica il rifiuto di una parte del popolo della destra a prendere seriamente il conferimento, nelle urne, del mandato ad amministrare i territori. Questa volta non è accaduto. Sebbene il calo dell’affluenza vi sia stato, gli sfidanti del centrodestra hanno avuto la meglio in quasi tutte le sfide nelle città capoluogo di provincia.
Probabilmente, a far tornare ai seggi gli elettori del centrodestra è stato il buon giudizio sull’operato del Governo Meloni. Perciò, non sarebbe una forzatura interpretativa attribuire un significato politico a un voto che dovrebbe basarsi esclusivamente sull’individuazione dei candidati e dei programmi più idonei a governare la complessità dalla plancia di comando degli enti locali.
Ciononostante, in chiave prospettica, continuiamo a giudicare il sistema elettorale che prevede il doppio turno una trappola alla quale il centrodestra farebbe bene a sottrarsi il prima possibile. Esiste il “modello Sicilia” che funziona efficacemente. Perché non adottarlo su scala nazionale? Abbassare la soglia per la proclamazione della vittoria al primo turno al 40 per cento più 1 dei voti validi, in luogo dell’attuale 50 per cento più 1, conferirebbe al vincitore un mandato democraticamente più solido perché espresso, in numeri assoluti, da una base di partecipazione al voto più ampia. L’altro giorno, alla lotteria dei ballottaggi, tutto è andato liscio per il centrodestra. Non è detto che in futuro accada di nuovo. Sarebbe perciò opportuno che il Governo Meloni, senza farsi fuorviare dal buon risultato delle Amministrative appena concluse, si sbrigasse a cambiare la legge elettorale per i Comuni.
Più in generale, riguardo all’affluenza, l’eccitazione per la vittoria non faccia perdere di vista ai leader del centrodestra la “mucca nel corridoio” che mutila qualsiasi vittoria elettorale. Non è possibile che diventi endemica l’assenza dalle urne di metà della popolazione. È un fatto gravissimo che tanta gente scelga di astenersi perché non crede più nella politica o perché ritiene che non vi siano differenze sostanziali nelle offerte programmatiche degli schieramenti in campo. È un vulnus democratico che dovrebbe indurre la classe politica a cercare nuove sintonie con il corpo elettorale e più stabili vicinanze con i problemi che assillano la gente comune. La partecipazione ai processi democratici è sempre stata la forza di uno Stato costruito su un impianto costituzionale d’ispirazione liberale. Spingere gli elettori a straniarsi dalle vicende della cosa pubblica, come ha fatto per anni la sinistra, porta a derive autoritarie. E questo è un problema di cui il centrodestra deve farsi carico.
Detto ciò, è necessario cominciare a mettere le mani nella massa magmatica dei risultati interni alle coalizioni. A noi, per egoistiche ragioni di bandiera, interessa guardare al centrodestra. Purtroppo, non è sempre un bel guardare. Le votazioni di ieri l’altro hanno confermato che nello schieramento guidato da Giorgia Meloni esiste un “problema Lega”. Il partito di Matteo Salvini continua a perdere terreno nelle sue terre d’elezione, al Nord. In Veneto si è andati oltre il campanello d’allarme: la frana c’è già stata. Si prenda il caso Vicenza. Lì ha vinto al ballottaggio, per un pugno di voti, il candidato di centrosinistra Giacomo Possamai (50,54%) che ha battuto Francesco Rucco (49,46%), sindaco uscente di centrodestra. Di là dalla maggior capacità di persuasione dimostrata dal Possamai, non vi è dubbio che sulla sconfitta di Rucco abbia inciso il risultato di lista della Lega che ha ottenuto il 6,43 per cento dei consensi al primo turno. Una débâcle, se si considera che alle Comunali del 2018 il partito di Salvini aveva riportato il 15,88 per cento dei consensi. Crollo solo in parte ammortizzato dall’exploit di Fratelli d’Italia, passato dall’1,67 per cento del 2018 all’odierno 10,02 per cento. Eppure lì in Veneto c’è Luca Zaia, il campione dei governatori regionali che, stando ai sondaggi, un terzo degli italiani vedrebbe volentieri a Palazzo Chigi. E Zaia è leghista. Com’è che non “tira” sul territorio come dovrebbe, lui “mister preferenze” (76,79%), alle regionali del Veneto nel settembre del 2020? Esiste in casa del Carroccio un “problema Zaia”, i cui primi sintomi si erano già avvertiti in occasione del naufragio alle Comunali di Verona lo scorso anno? Anche in quell’occasione la Lega, nella sua tradizionale roccaforte veneta, non era andata oltre il 6,59 per cento dei voti. Si obietterà: a questa tornata, il dato di Vicenza è un unicum. Non è proprio così. Per restare in Veneto, in provincia di Rovigo si è votato nel Comune di Adria. Una piccola città del Nord-est dove ha vinto il centrodestra. Peccato però che la Lega abbia contribuito alla vittoria con uno striminzito 4,55 per cento di voti alla lista.
Il partito di Salvini tiene maggiormente al Centro e vince nei comuni dove la sensibilità alle problematiche legate alla presenza degli immigrati clandestini è più sentita. È accaduto a Ventimiglia, città ligure di confine. Lì il candidato sindaco leghista, Flavio Di Muro, espresso dal centrodestra unito, ha vinto con ampio margine il ballottaggio (56,19%) e la lista della Lega ha conseguito un significativo 12,45 per cento, risultando il partito più votato. In Toscana, nelle tre città capoluogo dove il centrodestra si è affermato, la Lega si è mantenuta abbondantemente sopra il 10 per cento a Pisa e a Massa mentre è crollata al 3,87 per cento a Siena (9,04% alle Comunali del 2018). Financo nel Lazio, ad Aprilia come a Velletri e come nel frusinate ad Anagni, è andata meglio che in Veneto.
Ai fini della tenuta della coalizione, comprendere cosa stia accadendo in casa leghista è indispensabile. La coalizione di centrodestra, per restare vincente negli anni a venire, ha bisogno che tutte le sue gambe reggano in modo bilanciato. Se una di esse dovesse venire meno, l’obiettivo di varcare la soglia della maggioranza assoluta degli elettori si allontanerebbe. Si dirà: i consensi che perde Salvini li recupera la Meloni. Ciò è stato parzialmente vero alle elezioni del 2022 e a quest’ultima tornata di Amministrative, ma lo sarà in futuro? In altro momento proveremo a capire cosa stia succedendo in Forza Italia dove una lenta, impercettibile transizione verso il dopo-Berlusconi ha cominciato a fare capolino tra i dirigenti del partito. Per ora limitiamoci a prendere atto del successo odierno del trio Meloni-Salvini-Berlusconi, nella granitica convinzione che per il bene di tutti a destra – riformisti, liberali, conservatori e sovranisti – il centrodestra resti un osservato speciale.
Aggiornato il 01 giugno 2023 alle ore 09:59