Il tempo storico che viviamo è sdoppiato. Da una parte vi sono le chiacchiere su aspetti futili della vita comunitaria, che il potere usa come arma di distrazione di massa; dall’altra, c’è la realtà fatta di avvenimenti quotidiani che concorrono a modificare, spesso in peggio, la qualità della nostra vita. Chiacchiere sono quelle che la sinistra mette in scena parlando a sproposito di pericolo di derive autoritarie con il Governo di centrodestra. Chiacchiere sono le denunce su supposti rigurgiti razzisti e fascisti nel nostro Paese. Chiacchiere sono le astruse teorie che il progressismo militante propala a proposito dell’atto dovuto di abiurare le tradizioni, i valori e gli stili di vita che hanno concorso a edificare la civiltà occidentale da loro rinnegata. Chiacchiere velenose sono quelle dei relativisti culturali sulla fondatezza etica e giuridica delle teorie gender. Chiacchiere sono i panegirici sull’ineluttabilità escatologica dell’Unione europea intorno a cui si attorcigliano le tesi dei filoeuropeisti a oltranza.
Un fatto, invece, è la guerra che dilaga all’interno dei confini d’Europa. Un fatto è l’inflazione che ha determinato la perdita di potere d’acquisto dei salari. Un fatto è il generale aumento dei prezzi dei beni di prima necessità che ha provocato l’impoverimento economico di una parte consistente del ceto medio. Un fatto è la tirannia della burocrazia. Un fatto è la malagiustizia. Un fatto è la pretesa egemonica dell’eurocrazia di Bruxelles di azzerare le differenze identitarie tra i popoli che compongono l’Unione europea per giungere al più presto alla creazione di un homo novus europeo, totalmente asservito al conformismo del pensiero unico dominante.
Giacché le chiacchiere non ci stimolano intellettualmente, preferiamo dedicarci all’analisi dei fatti perché essi sono reali. Tra questi, non possiamo non volgere lo sguardo a ciò che a Bruxelles si continua a fare per recare danno all’economia, e con essa all’identità, italiana. Benché non fossimo pregiudizialmente antieuropeisti, abbiamo dovuto purtuttavia ammettere che guardare con fiducia a questa Europa sta diventando un esercizio davvero molto complicato. È da un po’ di tempo che, trovato il pretesto di rendere il mondo più “green”, si punta a colpire il “Made in Italy”, sotto qualsiasi forma esso si manifesti. È, in ordine di tempo, di questi giorni l’ultima pugnalata alla schiena inferta da Bruxelles al nostro Paese. Riguarda il comparto della pesca. Già in passato una serie di norme comunitarie ha portato alla limitazione delle attività di pesca a 130 giorni. Ciò ha determinato, negli ultimi 30 anni la scomparsa del 33 per cento delle imprese del comparto, la perdita di 18mila posti di lavoro e la riduzione della flotta peschereccia italiana a 12mila unità, con pesanti ripercussioni sull’indotto (fonte dati: Coldiretti Impresa-pesca). È storia vecchia che la Ue punti al trasferimento, nel tempo, delle fonti di approvvigionamento della materia prima alimentare dal mare agli impianti di itticoltura. In un Paese come l’Italia, dalle radicate tradizioni marinare, una tale politica finisce per annientare non solo un settore economico ma anche una storia plurimillenaria. E fosse soltanto l’itticoltura a minacciare i nostri pescatori.
Nei piani Ue c’è l’implementazione della tecnologia per la creazione di pesce in provetta. Si tratta di una sostanza ittica coltivata in vitro da cellule staminali. Già circola in Germania. E non ci vorrà molto perché Bruxelles imponga agli Stati membri di aprire le porte alla nuova mostruosità “creazionista”. Com’è avvenuto, nel 2018, con l’autorizzazione alla vendita in ambito Ue di insetti e larve animali per uso alimentare (Novel food), riconosciuti per via regolamentare comunitaria come prodotti tipici di culture gastronomiche di Paesi terzi. Adesso, per completare l’opera di annientamento della nostra tradizione peschereccia, Bruxelles ha varato una road map che prevede la soppressione, nel Mediterraneo, di 90 zone di pesca e la graduale eliminazione, entro il 2030, della modalità di pesca di fondo, in particolare della tecnica di pesca a strascico. In base alle stime di Coldiretti, l’effetto di tale indirizzo di politica comunitaria porterà fuori mercato almeno 3000 pescherecci della nostra flotta. Atteso che la pesca a strascico produce il 65 per cento del pescato nazionale, l’impatto sarà devastante sull’economia, sull’occupazione e sui consumi.
La scelta di Bruxelles, malamente coperta dal pretesto della salvaguardia dell’ambiente, è l’ennesimo siluro lanciato sotto la chiglia dell’economia nostrana. Questo è innegabile. Obietterete: dov’è la prova? Eccola. Sta nel paradosso surreale di chiudere le aree di pesca alle navi battenti bandiera dei Paesi Ue ma, nel contempo, di consentire nelle medesime aree la pesca alle flotte extracomunitarie, in particolare del Nordafrica. Con quale effetto? Quello di costringere i consumatori italiani a pagare cifre esorbitanti per consentirsi il lusso di mangiare pesce pescato nei nostri mari da marinerie egiziane, libiche, algerine e tunisine. Sempre secondo Coldiretti nel 2022 l’Italia ha importato, per l’acquisto in pescherie e supermercati e per il consumo nei ristoranti, oltre un miliardo di chili di pescato di origine straniera tra fresco e trasformato. Per chiudere la bocca agli operatori del settore danneggiati non desterebbe alcuna sorpresa se a Bruxelles si studiasse una sorta di riconversione lavorativa, finanziando il recupero in mare di essere umani, alimentato dal flusso crescente delle immigrazioni illegali dal Nordafrica, in luogo della pesca tradizionale. I pescatori in questi giorni sono scesi in piazza per protestare contro l’ennesimo colpo al ventre rimediato a opera dei padroni del vapore europeo. Non è che i media vi abbiano prestato particolare attenzione, impegnati com’erano a raccontarci tutto sulla “capa” del Partito Democratico, Elly Schlein, e sulla esperta di armocromia (sic!) che le suggerisce quali vestiti indossare e di quali colori, per essere più trendy.
Il provvedimento sulla pesca va ad affollare la lista di colpi bassi che l’Europa continua a infliggerci. Direttive “green” sull’adeguamento alle emissioni zero per le abitazioni private entro il 2033, economicamente insostenibile per le famiglie italiane; messa al bando delle autovetture a propulsione endotermica e sostituzione con l’elettrico che costa un botto; stretta sul riciclo degli imballaggi, penalizzante per il settore del packaging italiano che è un’eccellenza mondiale. Per non parlare dei tentativi della Commissione di inserire gli allevamenti di bestiame nell’elenco dei destinatari delle nuove norme sulle emissioni industriali, sempre in nome dell’utopico azzeramento dell’inquinamento dell’aria. E il sistema di etichettatura a semaforo prevista col Nutriscore, con le migliori produzioni alimentari italiane bollate col disco rosso, a indicare che sarebbero dannose per la salute?
Si dirà: guardiamo il bicchiere mezzo pieno, l’Europa matrigna è comunque pronta a darci una montagna di soldi attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). La nostra obiezione è prepolitica, in qualche misura etica: quale prezzo si può dare alla svendita della propria identità? Questa non è l’Europa che i padri fondatori avrebbero voluto. In fatto di trasformazione di cittadini in sudditi e di loro omologazione al pensiero unico coniato nelle stanze della Commissione europea a Bruxelles, somiglia all’Unione Sovietica di antica memoria. Gli italiani, contrariamente a quanto si dica in giro, sono estremamente concreti quando si tratta di difendere i propri interessi. Sanno valutare quando il gioco non valga la candela. I partiti farebbero bene a tenerlo a mente. In particolare il centrodestra, superata la fase di accettazione da parte degli euro-poteri, si sbrighi a cambiare registro nei rapporti con Bruxelles, perché le elezioni europee non sono lontane. E procedendo di questo passo, le urne potrebbero riservare sorprese amarissime tanto a destra quanto a sinistra. Del resto, non bisognerebbe dimenticare che antieuropeisti non si nasce, si diventa.
Aggiornato il 11 maggio 2023 alle ore 10:54