Aiutare l’Ucraina a resistere all’invasione russa costa caro. In tutti i sensi. Se gli eroici combattenti di Kiev stanno rispondendo colpo su colpo alle forze occupanti è perché, oltre al coraggio, hanno a disposizione sistemi d’arma e munizioni in grande quantità. Com’è ovvio, la capacità di fuoco dimostrata sul campo non l’ha portata in dono Babbo Natale, ma è frutto dello sforzo bellico che le nazioni del blocco occidentale – Italia compresa – sostengono dall’inizio della guerra. Purtroppo, l’opinione pubblica non è interessata ad approfondire tutti gli aspetti di filiera del comparto Difesa. Eppure, dovrebbe.
Il problema della regolarità del flusso nelle forniture d’armi, infatti, è presente e molto sentito da tutti i Governi alleati dell’Ucraina. Bisogna immaginare l’approvvigionamento di materiale bellico come un sistema di vasi comunicanti: se un arsenale viene riempito, altri sono stati svuotati. La Difesa italiana non fa eccezione. Ci siamo tuffati a capofitto nell’appoggio incondizionato all’Ucraina e adesso scontiamo la difficoltà di avere gli arsenali depotenziati. Lo ha confermato il capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, in una recente audizione alla terza Commissione Affari esteri e Difesa del Senato. Ma sono già diversi mesi che il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha lanciato l’allarme sulla necessità di ripristinare le scorte che servono per la difesa nazionale. Il guaio è che Bruxelles, dal prossimo anno, tornerà a stringerci al collo il cappio del Patto di stabilità, dopo tre anni di allentamento della presa a causa della pandemia. Siamo alla solita contraddizione patologica dello scombiccherato caravanserraglio comunitario. Per un verso, si vuole che ogni Paese membro dell’Unione producano il massimo sforzo nell’aiutare militarmente l’Ucraina a difendersi; per altro verso, non si rinuncia alla pretesa di imporre politiche di austerity agli Stati membri che hanno maggiori esposizioni debitorie. Non si può pretendere di avere la botte piena e la moglie ubriaca, bisogna scegliere.
Già, scegliere con criterio. Espressione inudibile nei consessi europei. C’è sul tavolo una proposta italiana che è di puro buon senso. Per trovare la quadra sugli investimenti nel settore del munizionamento e della produzione di sistemi d’arma da fare in deficit basterebbe escludere la specifica voce di spesa dalle regole del Patto di stabilità. D’altro canto, non è che vi siano altre strade percorribili, atteso che, oltre al sostegno dovuto alla causa ucraina, i Governi che hanno preceduto quello Meloni hanno assunto l’impegno in sede Nato di portare il capitolo delle spese per la Difesa al 2 per cento del Pil. Per l’Italia si tratterebbe di un esborso da circa 38 miliardi di euro, calcolati in base al valore aggregato a prezzi di mercato attualizzati del Pil. A fronte di un’Europa sorda e miope, in loco parentis, è intervenuta la Commissione europea a stanare i Paesi ricalcitranti riguardo agli investimenti nella Difesa. È di ieri l’altro l’annuncio della sorprendente decisione presa dalla Commissione di autorizzare l’uso dei Fondi di coesione e del Pnrr per aumentare la produzione di armi in ambito comunitario. Si tratta di uno dei bracci della tenaglia con la quale l’Europa prova a spezzare il coriaceo apparato offensivo dell’esercito russo. L’altro è rappresentato dallo sforzo finanziario che la Commissione di Bruxelles mette in campo in prima persona. L’Act in Support of Ammunition Production (Asap) è il provvedimento legislativo con il quale la Commissione s’impegna a versare 500 milioni di euro, afferenti dal bilancio Ue, alle industrie dei Paesi dell’Unione allo scopo di aumentarne la capacità produttiva nella fabbricazione di armamenti.
In complesso, è un buon primo passo compiuto dalla Commissione europea nella giusta direzione. Ci sta che i Paesi destinatari dei Fondi del Recovery and Resilience Facility possano dirottarne una parte per pagarsi il riarmo. Di gran lunga preferibile – nel caso italiano – sostenere economicamente l’implementazione dei cinque assi di sviluppo capacitivo per lo strumento militare terrestre prevista dal Concept paper Esercito 4.0, invece che sprecare soldi nei progetti lunari con i quali i Comuni hanno inondato l’ufficio Programmazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). Peraltro, sono già depositati in Parlamento, per ricevere i prescritti pareri, gli schemi dei decreti ministeriali concernenti i programmi pluriennali di acquisizione di sistemi d’arma. Si tratta di 80 programmi, di cui 26 presentati nel 2022, 31 nell’anno 2021, 8 nel 2020 e 15 nel 2019. I programmi d’arma coinvolgono tutte le Forze Armate, compresa l’Arma dei carabinieri. E sono così distribuiti e finanziati: Aeronautica 27 programmi per uno stanziamento di 11 miliardi 997 milioni di euro; Marina militare 19 programmi e stanziati 12,3 miliardi di euro; Esercito italiano 21 programmi per 9 miliardi 258milioni di euro; Arma dei carabinieri 4 programmi a fronte di uno stanziamento pari a 387,2 milioni di euro. È inoltre prevista una dotazione di 3miliardi e 908 milioni di euro per l’implementazione di programmi interforze.
Ora è l’Europa ad aprire i cordoni della borsa. Tuttavia, bisogna bene intendersi con Bruxelles: la priorità deve essere il co-finanziamento dell’industria nazionale della Difesa di ciascun Paese membro. Solo in seconda battuta si penserà alla fornitura di munizioni e di missili all’Ucraina. La precisazione è d’obbligo, perché la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel discorso di presentazione delle misure adottate a sostegno della produzione di munizioni (Asap) è stata se non ambigua, quanto meno monocorde. Dalle sue parole si evince un’attenzione esclusiva rivolta all’Ucraina.
“L’Ucraina sta resistendo eroicamente al brutale invasore russo. Manteniamo la nostra promessa di sostenere l’Ucraina e il suo popolo, per tutto il tempo necessario. Ma i coraggiosi soldati ucraini hanno bisogno di attrezzature militari sufficienti per difendere il loro Paese”, è ciò che ha dichiarato. La nostra idea, non ce ne voglia la presidente von der Leyen, è invece di restituire alle Forze Armate nostrane la massima capacità operativa. Non può andare diversamente. I denari del Pnrr sono presi a prestito e perciò vanno restituiti. Ora, non possiamo pensare d’inchiodare le future generazioni d’italiani, che si troveranno un enorme debito sul groppone, a pagare di tasca loro l’acquisto di munizioni e di sistemi d’arma girati ai pur valorosi combattenti ucraini. La generosità è la più nobile delle virtù che un essere umano possa avere. Tuttavia, se quell’essere umano, per apparire generoso agli occhi altrui, non solo dilapida le sue fortune ma s’indebita e indebita i propri figli per prodigalità verso il prossimo, è giusto che venga interdetto e curato con amorevolezza in una struttura sanitaria idonea ad accoglierlo.
Per un Governo di uno Stato sovrano vale il medesimo principio: si può dare ad altri una parte di ciò che si ha, non ciò che si prende a prestito oneroso, seppure a tassi d’interesse agevolati. Il Governo Meloni, che bene sta operando in molti campi, riguardo al dossier Ucraina sembra affetto da ansia di prestazione. Sarebbe sgradevolmente censurabile l’iniziativa di dirottare fondi del Pnrr, tirandosi addosso l’ira funesta dei pacifisti d’accatto della sinistra e dei Cinque Stelle, non per rendere più performante la funzionalità operativa delle nostre forze di Difesa, ma per rifornire gli ucraini di nuove armi e munizioni. Ricordi il Governo che gli italiani non hanno scritto “Giocondo” in fronte.
Aggiornato il 08 maggio 2023 alle ore 09:33