Pacem in Terris

Non è certo il Concertone del 1° Maggio organizzato dai sindacati la “notiziona” che ha chiuso la scorsa settimana. E, a pensarci bene, non lo è neppure il Decreto-lavoro approvato dal Consiglio dei ministri per ridurre il cuneo fiscale sul lavoro dipendente, aiutare economicamente i lavoratori a contenere la perdita di potere d’acquisto dei salari seguita all’impennata della curva inflattiva e offrire agli inoccupati concrete opportunità d’inserimento o reingresso nel mercato del lavoro. Non lo è perché, in qualche misura, i provvedimenti presi dal Governo erano stati ampiamente preannunciati. E non fa notizia neppure il livore dipinto sul volto di Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, che non ha saputo nascondere la rabbia per la decisione di Giorgia Meloni di rubargli la scena riunendo i ministri nel giorno della Festa dei lavoratori. Il premier non avrebbe dovuto osare un tale affronto al ras del sindacato perché il 1° maggio – come d’altro canto il 25 aprile – è cosa loro, della sinistra sotto qualsiasi forma organizzata, per cui gli altri, quelli che un tempo erano considerati nemici di classe, non dovrebbero intromettersi nei festeggiamenti. A questo siamo, alla lesa maestà quando non si rispetta la lottizzazione delle ricorrenze. E neanche ce ne vergogniamo. Se, allora, non è questa roba a scaldare i cuori, cos’è che lo fa?

È la notizia – questa sì, notizia – data da Papa Bergoglio, durante il volo di ritorno dal viaggio pastorale in Ungheria, riguardo alla guerra tra Russia e Ucraina. Ha detto il pontefice: “Adesso è in corso una missione (di pace, ndr): per ora non è pubblica, ne parlerò quando sarà pubblica”. E se lo dice lui non gli si può non credere, anche se le parti interessate – Russia e Ucraina – dicono di non sapere nulla dell’iniziativa vaticana. Niente di anomalo, è così che funziona la diplomazia segreta. Se tutto fosse di pubblico dominio che diplomazia sarebbe? Quindi, da qualche parte qualcuno, presumibilmente vestito dell’abito talare e che ha letto con attenzione l’enciclica “Pacem in Terris” di Papa Giovanni XXIII dell’11 aprile 1963, tenta di aprire un canale di dialogo con i belligeranti al dichiarato scopo di fermare la guerra. Finalmente qualcuno prova a muoversi, probabilmente ispirato dalla fotografia della realtà impressa a fuoco nelle parole di Giovanni XXIII che fanno da incipit all’Enciclica: “Con l’ordine mirabile dell’universo continua a fare stridente contrasto il disordine che regna tra gli esseri umani e tra i popoli; quasicché i loro rapporti non possono essere regolati che per mezzo della forza”.

Sul piano terreno della geopolitica, era ora che in una cancelleria occidentale – Città del Vaticano è, ancorché minuscolo, uno Stato sovrano e indipendente la cui forma di governo è una monarchia assoluta elettiva – suonasse la sveglia per rammentare a tutti una semplice verità: in certi tipi di guerre non ci sono vincitori e vinti, ma solo vinti. Non siamo mai stati – e probabilmente mai lo saremo – fan di questo pontefice. La sua visione del mondo non è la nostra. Troppo ci divide, a cominciare dall’idea che l’essenza soprannaturale presente in un essere umano debba prevalere su tutto ciò che ogni altro individuo possa aver costruito e di cui possa legittimamente rivendicare la proprietà. Non appartiene alla nostra filosofia esistenziale la rassegnata accettazione che al diritto dell’altro, di qualsiasi altro, debba corrispondere il dovere, eticamente vincolante, di ciascuno di assecondarlo, anche a prezzo di doversi spogliare, o di essere spogliato, di ciò che si possiede. Su questo, e su altro, non siamo sulla stessa sponda di Papa Francesco. Purtuttavia, non possiamo non essere con lui quando si propone come emissario di pace perché la distruzione di tutto il genere umano esca dalle agende dei potenti della Terra. Resta oscuro il motivo per cui i governanti dell’Occidente si siano intestarditi nel sostenere la guerra alla Russia – per dirla con urticante locuzione – senza se e senza ma. Mai capiremo il perché, da parte europea, non si sia costretti gli inquilini del Cremlino a sedere a un tavolo negoziale con l’Ucraina per porre fine all’invasione, invece preferendo la strada dell’appiattimento europeo sulle posizioni oltranziste di Washington. Che non sono le posizioni della maggioranza del popolo statunitense ma appartengono all’indole bellicista dell’amministrazione democratica del presidente Joe Biden. È ormai inutile piangere sul latte versato. Serve adesso un cambio radicale di rotta in direzione della via diplomatica al negoziato, prima che sia troppo tardi. Non si tratta di fare del pacifismo d’accatto, ma il nostro è crudo, disperante pragmatismo. Sono mesi che Kiev continua a battere sul tasto di un’imminente controffensiva per liberare tutti i territori dell’Ucraina illegalmente occupati dai russi. Tutti, anche la Crimea, annessa alla Federazione Russa nel 2014. Premesso che gli ucraini hanno il sacrosanto diritto di credere nella vittoria finale, non è per nulla realistico immaginare che ce la possano fare. Ammesso, per ipotesi, che con le armi occidentali i soldati di Kiev sfondassero il fronte meridionale e che giungessero a minacciare da vicino la penisola della Crimea, pensate davvero che Mosca glielo lascerebbe fare? Se si dovesse profilare una sconfitta sul campo, il Cremlino ha fatto intendere che non si farà scrupolo a innescare l’escalation bellica, fino all’utilizzo di armi tattiche nucleari. A quel punto cosa accadrà del mondo? E di noi, cosa ne sarà? Finirla con l’estinzione di buona parte del genere umano non è un’opzione contemplabile.

Perciò siamo con Papa Bergoglio quando si dice pronto a tutto pur d’innescare un virtuoso processo negoziale che porti alla pace. Al momento, il centro della guerra ruota intorno a Bakhmut, cittadina dell’Ucraina orientale nell’Oblast di Donec'k, al centro del Donbass. I russi l’hanno rasa al suolo. Ciononostante, gli ucraini resistono. Ma sembra che sia questione di ore prima che il cerchio degli invasori si chiuda attorno alla città strategica della regione del Donbass. Ora, a Kiev come a Washington e come in tutte le capitali europee vi è piena consapevolezza del fatto che se cadesse Bakhmut crollerebbe l’intero fronte ucraino dell’Oblast di Donetsk. A quel punto, una vittoria di tale portata rinfrancherebbe il morale dei combattenti e dei governanti russi. Di certo, gli toglierebbe la voglia di negoziare piani di pace che non partissero dal riconoscimento internazionale dell’annessione a Mosca dei territori ucraini conquistati. Perché, allora, attendere passivamente che il peggio accada? Perché, invece, non prendere atto della realtà e puntare sul congelamento delle posizioni in campo? Una soluzione sul modello delle due Coree è ancora possibile: un cessate il fuoco sostenuto dal tracciamento di una frontiera armistiziale a tempo indeterminato sulle attuali linee del fronte. È vero: l’obiettivo assoluto della cacciata dei russi dal suolo ucraino sarebbe fallito. Ma guardiamo in faccia alla realtà: una Terza guerra mondiale, con largo ricorso all’arma nucleare, non ce la possiamo permettere.

Prima l’Occidente si racconterà la verità sul disastro combinato in Ucraina e meglio sarà per tutti. A cominciare dagli stessi ucraini che smetteranno di morire sotto i bombardamenti incessanti della ex grande madre Russia.

Aggiornato il 03 maggio 2023 alle ore 09:49