Ora che ci siamo messi alle spalle la stucchevole polemica sul 25 aprile e sul grado di antifascismo presente nell’apparato cardiocircolatorio di Giorgia Meloni, preoccupiamoci di cose serie. Cioè di quegli argomenti che attengono alla libertà sostanziale di un popolo. Già, perché la questione della libertà, che nulla ha da condividere con le sparate antifasciste inscenate dalla sinistra, è un problema concreto e presente in un tempo storico segnato dalla stretta connessione tra le policies dei Governi nazionali e le manovre speculative operate sui mercati finanziari.
La nostra non è libertà piena, ma limitata. I governi, figli di sinceri processi democratici, non hanno le mani libere. E, comunque, non le hanno tutti allo stesso modo. Per stare alle vicende di casa nostra, l’Italia tra i partner occidentali è quella che le ha più legate di tutte. E non da oggi. È dal 2011, con la deflagrazione del Governo Berlusconi, che abbiamo dovuto prendere atto della presenza di una mano invisibile in grado di determinare le sorti, in negativo, di un Governo democraticamente eletto dal popolo. La mano invisibile è quella dei mercati finanziari i quali, attraverso le falangi delle Agenzie di rating e dei centri studi delle principali banche d’affari, manovra sul differenziale di rendimento (spread) tra i titoli decennali del debito pubblico nostrano e i corrispondenti titoli tedeschi. Accade in queste ore che si vadano addensando all’orizzonte nuvoloni assai minacciosi per il nostro Paese. In sequenza. Alcuni giorni orsono gli analisti della banca d’affari statunitense Goldman Sachs hanno consigliato ai propri clienti di liberarsi dei Btp italiani, detenuti in portafoglio, e di puntare a investire sui Bonos spagnoli, attese le migliori prospettive di crescita offerte dalla Spagna.
Di rimbalzo, le Agenzie internazionali di Rating – S&P (Standard & Poor’s) e Moody’s – hanno lanciato un avvertimento ai mercati sulla possibilità che l’Italia perda la qualifica di “investment grade”. Tale qualifica definisce l’affidabilità di un titolo del debito sovrano, affinché la sua emissione avvenga ai tassi d’interesse più vantaggiosi per il debitore. Attualmente, il debito italiano è collocato, da tutte le agenzie di rating, nella fascia più bassa delle classi di merito: Baa3 per Moody’s, Bbb per S&P e Bbb per Fitch. Se venisse confermato l’outlook negativo – cioè la previsione a medio-lungo termine – il titolo diverrebbe uno “junk bond”, un titolo spazzatura, con conseguenze devastanti per la nostra economia e per i conti pubblici. E nessun Governo potrebbe resistere a uno tsunami finanziario di tale portata.
Non ci inoltreremo in discorsi di carattere tecnico-finanziario sulle ragioni che hanno spinto le agenzie di rating a mettere, unico tra i Paesi occidentali, l’Italia nel mirino. Molto, in proposito, ci sarebbe da dire e molto diremo in altre occasioni. Per il momento, ci soffermiamo sulla necessità di riflettere sul punto nodale del rapporto perverso, negli anni degenerato, tra democrazia e poteri finanziari. Non è questione accademica, ma storia di vita vissuta. Ci siamo passati nel 2011. Abbiamo toccato con mano quanto possa essere spietato il mercato che può improvvisamente, senza apparente motivo, accanirsi contro un Governo legittimo e, a colpi di spread – che misura anche il tasso di fuga degli investori dal titolo del debito sovrano del Paese posto sotto attacco – farlo cadere e sostituirlo con una struttura commissariale eterodiretta. Si potrebbe obiettare che intanto l’Italia si espone a tali manovre speculative perché ha un debito pubblico gigantesco, che nessun altro al mondo ha, a eccezione degli Stati Uniti e del Giappone. Si tratta di un’argomentazione friabile, tirata in ballo quando conviene pur mancando di solido fondamento scientifico o empirico. Soprattutto, essa non è in grado di dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra l’aumento del debito pubblico e la crescita dello spread.
Nei giorni che precedettero la caduta del Governo Berlusconi (16 novembre 2011), il differenziale tra Btp e Bund a 10 anni toccava il livello record di 575 punti, con il tasso del Btp al 7,47 per cento. In quel momento, il debito pubblico era di 1.897.900 milioni di euro con una percentuale sul Pil pari al 119,70 per cento. L’anno successivo, con il Governo “commissariale” di Mario Monti – quello che, nelle intenzioni dei potentati europei, avrebbe dovuto rimettere in ordine i conti e risanare l’Italia – lo spread ridiscese in area 300 punti (31 dicembre 2012) mentre gli interessi pagati dal Tesoro calarono sensibilmente dal 7 per cento dell’anno precedente al 4,50 per cento. Eppure, nel 2012 il debito pubblico crebbe, raggiungendo la cifra di 1.989.781 milioni di euro e un differenziale sul Pil pari al 126,50 per cento.
Quale fu il discrimine che portò i mercati ad apprezzare Mario Monti, nonostante questi avesse peggiorato e non migliorato i conti pubblici e provocato un disastro sociale che non ha conosciuto uguali negli ultimi decenni della storia italiana? Semplicemente questo: Silvio Berlusconi era stato messo sotto tiro dai poteri forti europei, che avevano deciso, nella primavera del 2011, di sbarazzarsene. Il “Golpe” riuscì grazie anche all’aiuto prestato ai padroni del vapore europeo dalle quinte colonne e dai soliti utili idioti che non sono mai mancati all’interno delle nostre istituzioni. Mario Monti, invece, era una diretta emanazione di quei poteri, messa a Palazzo Chigi per garantirli, indipendentemente dalla circostanza se fosse stato o meno in grado di governare facendo gli interessi dell’Italia. Cosa ne ricaviamo da questo doloroso precedente? Che, sulle oscillazioni dello spread, fino a un certo punto c’entra l’emotività dei mercati finanziari. Dietro la mano invisibile del mercato si celano ancor meno visibili “manine” di poteri che mirano a combattere le proprie guerre a suon di spread e di crisi finanziarie.
Venendo all’oggi, sappiamo che sull’asse Parigi-Bruxelles-Berlino Giorgia Meloni non goda di alcuna simpatia. Che nelle stanze ovattate di qualche illustre Cancelleria europea si stia preparando per l’Italia un nuovo 2011? Qualche analogia comincia a intravedersi. Il 4 gennaio 2011 lo spread era a 173 punti; ieri chiudeva a 189,160 punti. L’8 febbraio del 2011, l’allora direttore generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, poi osannato ministro dell’Economia nel Governo Letta, in un intervento presso il Bundesministerium der Finanzen tedesco, a Berlino, si spingeva a dire che “lo spread dell’Italia, che era più alto di quello della Spagna fino all’aprile 2010, si è poi mantenuto costantemente al di sotto dello spread spagnolo fino ad oggi, testimoniando la valutazione positiva del mercato per la gestione della finanza pubblica in Italia in questa fase di crisi… La valutazione del mercato riflette il basso livello del debito privato dell’Italia, la solidità del suo sistema bancario, l’alto livello della ricchezza, reale e finanziaria, delle famiglie e, infine, l’ampiezza e l’articolazione della sua industria manifatturiera, operante in tutti i principali settori”.
Oggi la Commissione europea esprime un giudizio positivo sulla manovra di Bilancio italiana per il 2023, definendola “complessivamente in linea con le indicazioni e con le linee guida contenute nella raccomandazione del Consiglio Ue del luglio scorso” e la più autorevole stampa statunitense (Washington Post) esprime giudizi molto lusinghieri sull’operato di Giorgia Meloni. Poi però, nel 2011, venne l’estate che precipitò il Paese nel baratro. Adesso siamo in aprile e sappiamo che entro il prossimo giugno le banche dovranno rimborsare l’ultima tranche del Targeted Longer-Term Refinancing Operations (Tltros), cioè le operazioni di rifinanziamento a lunga scadenza pianificate dalla Banca centrale europea a beneficio degli enti creditizi. Non è che dobbiamo temere di vivere un drammatico déjà vu?
Da qualche parte, in qualche salotto che reca l’odore stantio di poteri marci, qualcuno sta forse decidendo che il tempo del Governo di centrodestra stia per scadere e che un ritorno al solito minestrone dei “Governi tecnici” – generosamente inclusivi di quella sinistra sconfitta nelle urne e dalla storia – posti sotto il controllo di un’improbabile Troika finanziaria, sia la cosa più salutare per un’Italia che si vuole serva altrui e “di dolore ostello”, anziché nazione libera e padrona del proprio destino? Non si tratta di fare le cassandre o i complottisti da bar. Purtuttavia, come un gigante della politica soleva ripetere tra il serio e il faceto: a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina.
Aggiornato il 28 aprile 2023 alle ore 10:04