25 Aprile: un grimaldello ideologico

Che dire di Lei, di questa data marchiata a fuoco nella coscienza civile del Paese: 25 Aprile 1945. Che dire ancora di uno snodo cruciale per la storia italiana, dopo che di tempo se ne è dissolto tanto e la storiografia, nel bene e nel male, pare abbia fatto il suo lavoro, dando spessore culturale a una liberazione che si è fatta storia. E a una storia che si fatta identità nazionale, sebbene non ancora pienamente condivisa.

Già, perché a dispetto dei decenni è alquanto sconfortante constatare come il 25 Aprile sia tuttora un grimaldello ideologico, o feticcio culturale che dir si voglia, adoperato da una certa parte politica esclusivamente per scopi di natura ideologica ed elettorale. Peraltro, con esiti non proprio confortanti, ma tant’è. In mancanza di una chiara prospettiva programmatica, che possa fungere da mastice per le varie sfumature progressiste, l’unico rimedio è quello del ritorno a un passato opportunamente mitizzato e plasmato alla bisogna. Difatti, pare che per alcune frange della sinistra – ben rappresentate peraltro dal nuovo corso del Partito Democratico – la Resistenza, più che essere un accadimento ben inquadrato temporalmente, contraddistinto, per intenderci, dalle sue pagine chiare e dalle sue pagine scure, diviene per taluni una “forma mentis” che si va a perpetrare lungo il fluire dei decenni; una visione cristallizzata e senza possibilità di interpretazione, che fornisce una lettura univoca delle dinamiche politiche dell’oggi e si arroga il diritto di filtrare quanto il domani avrà in serbo per le generazioni future.

Insomma, un approccio siffatto consente di accennare un parallelismo con quanto era solito dichiarare Umberto Eco a proposito del fascismo, rovesciando il suo stesso paradigma per poter parlare così dell’Ur-Resistenza. Il meccanismo è quanto di più sofisticato e financo pericoloso possa esserci: sfruttare una data per tramutare il proprio avversario in un nemico, per passare in tal modo da un piano politico-culturale ad una dimensione etica e morale, per riperimetrare il campo valoriale di azione, escludendo il diverso e facendolo apparire come reietto. Va da sé che un approccio siffatto diviene foriero di oblii ben orchestrati e di silenzi colpevolmente complici. La Resistenza ufficiale è l’Anpi. La Resistenza ufficiale sono i facinorosi che respingono i rappresentanti della Brigata ebraica durante le rievocazioni celebrative. La Resistenza ufficiale è quell’omertà ipocrita e tendenziosa, che tace sui veri artefici della liberazione di cui tuttora i cimiteri anglo-americani, presenti nel nostro suolo patrio, traboccano.

Quante cose ci sarebbero da narrare o, per lo meno, da ricordare. Soprattutto a chi ama ergersi a (cattivo) maestro, sempre pronto a dare certificati di presentabilità politica e non solo. Infatti, molti fingono di ricordare – o non vogliono farlo – quanto venne sancito durante la svolta di Fiuggi che portò al compimento della trasformazione dell’allora Movimento Sociale in quella che poi sarebbe diventata Alleanza Nazionale, consentendo, tra le altre cose, il passaggio da un certo antiamericanismo a una visione atlantista e da una malcelata avversione per il capitalismo a un approdo sincero verso un’economia di mercato. Ebbene, nel documento redatto alla conclusione dei lavori si può leggere che “è giusto chiedere alla destra italiana di affermare senza reticenza che l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”. E ancora: “La destra politica non è figlia del fascismo. I valori della destra preesistono al fascismo, lo hanno attraversato e ad esso sono sopravvissuti”.

Era il 1995. Eppure, c’è chi ancora persiste nel chiedere alla Destra abiure e correzioni ideologiche. Sarebbe bello, invece, leggere analoghe asserzioni e prese di coscienza da non pochi partiti di sinistra nei confronti del comunismo. Di revisionismo qualcuno potrebbe perire, data la mole di scheletri stipati negli armadi della memoria progressista. E a tal proposito fa strano leggere la trama dell’ultima pellicola di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire. Una condanna postuma del Partito Comunista italiano – o meglio di un atteggiamento del Pci – che diede il suo pieno appoggio all’invasione di Budapest. Ecco, il problema non è tanto l’abiura di Budapest. Il problema è che non ci fu solamente Budapest nel libro nero del comunismo italiano, bensì tanti altri luoghi, volti, episodi, fenomeni e situazioni che si è voluto accuratamente celare dalla vista e offuscare nella memoria collettiva. Da qui la feroce avversione che nella loro carriera hanno dovuto subire figure provenienti da differenti estrazioni culturali quali Giorgio Pisanò, Giampaolo Pansa e Renzo De Felice. La loro colpa? Quella, per l’appunto, di aver osato alzare il velo della retorica resistenziale e di un dato conformismo storiografico, mostrando così una diversa sceneggiatura nella quale gli eroi non erano tutti giovani e belli, per dirla come Francesco Guccini, e soprattutto non erano propriamente degli eroi. Non tutti, per lo meno.

Perché è sacrosanto ribadire un altro concetto basilare, vale a dire che nonostante il saluto alla propria bella e il vento che fischiava e financo i liberali non avessero canzoni - come ricorda un ottimo saggio di qualche tempo fa – la Resistenza, tutta la Resistenza, è stata una meravigliosa orchestra polifonica. Una miniera impreziosita da moltissime gemme d’ispirazione cattolica oppure azionista, a volte militare (si pensi alla strage di Cefalonia) altre per l’appunto comunista o liberale.

La differenza, va da sé, la faceva lo scopo, oserei dire l’intima escatologia dei combattenti: ossia di coloro che lottavano, affinché ogni singola persona potesse riconquistare la propria insindacabile libertà di scelta e di quelli che avrebbero ben gradito la sostituzione dittatoriale, passando in tal modo dalla superiorità della razza alla supremazia di una classe sociale sull’altra, sempre a discapito dell’unicità e della irripetibilità dell’essere umano.

Aggiornato il 26 aprile 2023 alle ore 10:17